Il volo di illimity

Per la crescita delle PMI italiane

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Corrado Passera

Le sfide del volo catturano talvolta l’attenzione dei banchieri. Come l’euro-calabrone di Mario Draghi – disse l’ex presidente della Bce nel suo celebre discorso del “what ever it takes” – in grado di volare a dispetto della sua stazza. O la metafora utilizzata da Cor­rado Passera, commentando nelle scorse settimane i risultati semestrali di illimity. “Abbiamo deciso di togliere in volo uno dei due motori dell’aereo, sostituendolo, e questo sta avvenendo con efficacia. Volia­mo più alti”. La banca, fondata dallo stesso Passera nel 2018, ha annunciato ad inizio anno l’abbandono del business del credito distressed sul quale aveva costruito negli anni passati una parte della sua fortuna. Per il futuro ha deciso di concentrarsi sul finanziamento delle PMI performing e di quelle che hanno necessità di rilanciarsi. È dunque ancora più rimarchevole che illi­mity, pur dopo una così decisa strambata, abbia chiuso i primi sei mesi dell’anno con redditività e utili netti in crescita (vedi ar­ticolo a parte).

Passera è tra i più stimati banchieri italiani con una lunga carriera alle spalle. Ha guida­to giganti delle dimensioni di Poste Italiane e di Intesa Sanpaolo. “Ancora adesso – nota con una punta di civetteria – quasi tutti gli amministratori delegati delle medie, grandi banche italiane sono manager che hanno condiviso con me parte della loro carriera”. Nella sua vita professionale coltiva anche un altro grande interesse. In questa intervi­sta a Be Bankers non rinuncia a intervenire su alcuni grandi temi che animano il dibat­tito politico più generale mostrando come la passione per la res pubblica – è stato pluri ministro nel governo presieduto da Mario Monti – non è per nulla sopita.

Ma certamente ciò che gli sta più a cuore è spiegare a che punto è il tragitto che illimity sta percorrendo e sottolineare che, dopotut­to, le recenti scelte nel business plan della banca si collocano in un solco già tracciato al momento della sua nascita. “Il nostro mestiere – spiega – è di essere al servizio delle piccole e medie imprese (PMI). Noi siamo nati per quello. Di piccole e medie imprese ce n’è di ogni tipo. Noi ci dedichia­mo a quelle con forti programmi di crescita e di investimento. Oppure, altra categoria importantissima, a quelle aziende che sono alle prese con un passaggio generazionale, che vivono una transizione. In quel con­testo non è raro che debbano affrontare problemi nuovi, che facciano anche degli errori. Tutte le aziende, prima o poi, pas­sano in un momento di bassa.

E a quel punto che succede?

Quando in una azienda sorgono difficoltà più o meno gravi non tutte le banche sono dispo­nibili ad impegnarsi. Una delle attività che ci distingue maggiormente è proprio quella di occuparci di quelle aziende che, secondo i casi, vengono definite special situations, in ristrutturazione, in turnaround, in stage due. Cioè quelle aziende che devono ripensarsi. Ecco, in questo pensiamo di essere bravi. Per intervenire, soprattutto nei casi di risanamen­to e rilancio aziendale, oltre agli esperti del credito, coinvolgiamo quelli di settore in cui operano le aziende potenzialmente clienti, i tutor, che ci aiutano nella valutazione e aiutano le aziende ad elaborare un piano di sviluppo. Per noi è un po’ come diventare soci delle imprese: vanno seguite nel mettere a punto i programmi di risanamento e rilancio e poi affiancate nel tempo.

illimity è un’impresa che si adatta al mondo in cui opera.

Da come lei sta parlando non sembra esserci stato, all’inizio di quest’anno, un cambio così radicale rispetto all’i­nizio della vostra avventura. Più che altro avete preso atto che la congiun­tura era cambiata.

illimity è un’impresa che si adatta al mondo in cui opera. E continuerà ad essere così. E da banca specializzata sulle Pmi, abbiamo sem­pre guardato a tre filoni: credito performing, restructuring e distressed. Quest’ultimo seg­mento ha portato in tutti questi anni risultati di particolare soddisfazione. Ma l’attrattiva di un mercato deriva da tre fattori: la sua dimensione, con le connesse possibilità di crescita; l’ambiente regolatorio; la capacità di essere competitivi. Noi ci siamo ritagliati un posizionamento distintivo e i risultati lo hanno confermato. Le nuove norme sugli intermediari specializzati nel credito dete­riorato in arrivo con la Secondary Market Directive (SMD) ci avrebbero però molto penalizzato e abbiamo deciso di accelerare l’uscita dall’attività di investimento diretto in portafogli NPE. Il calo del mercato, ma­nifestatosi negli ultimi 18 mesi, non ha fatto altro che rafforzare la nostra decisione. Nel mondo del deteriorato, rimaniamo invece molto attivi attraverso ARECneprix che si è ritagliata una sua ottima posizione compe­titiva nell’asset management e nel servicing di posizioni UTP corporate con sottostante soprattutto immobiliare.

Nel frattempo, la domanda di credito, di crescita e di ristrutturazione continuava a crescere. Abbiamo deciso di mettere tutta la nostra capacità, tutta la nostra potenza di fuoco al servizio di queste priorità. Oggi le competenze specialistiche della divisione Specialised Credit (che prima si chiamava Distressed Credit Division) vengono cana­lizzate nell’attività di asset based financing con sottostante real estate o energy.

Sta disegnando un quadro di un’eco­nomia ancora molto vivace. Quelle imprese si stanno finanziando con le banche o scelgono di andare diretta­mente sul mercato dei capitali?

È un quadro in evoluzione. Le PMI italiane erano storicamente del tutto dipendenti dal credito bancario, anche per ragioni stret­tamente regolamentari. Il peso del credito bancario è molto calato e non dovremmo essere lontani dal 50%. A questa evoluzione ha contribuito una misura presa dal governo di cui facevo parte e di cui sono orgoglioso. Nel momento in cui abbiamo fatto entrare in Italia i fondi di credito e nel momento in cui abbiamo creato i mini-bond cioè la possibilità anche per le imprese piccole non quotate di accedere direttamente al mercato, abbiamo, di fatto, smantellato una situazione di so­stanziale monopolio bancario e i numeri si sono subito mossi.

Ma con l’aumento dei tassi d’interesse il mondo del credito non ha riscoperto il mestiere tradizionale dei banchieri? Il margine d’interesse non è tornato ad avere quella centralità che fino a pochi anni fa aveva perduto?

Il margine di interesse è la voce più significa­tiva dei bilanci bancari. La crescita repentina è dovuta soprattutto dal forte allargamento dello spread a sua volta dovuto alla crescita dei tassi attivi a fronte di una crescita molto più bassa dei tassi passivi, se non addirittu­ra nulla sulla raccolta a vista delle banche tradizionali. Il credito a famiglie e imprese è diminuito anche a causa dei tassi alti, ma è diminuito in maniera preoccupate per le PMI: certamente di più della propensione di queste ultime a indebitarsi.

In un contesto in cui l’economia è viva­ce e le banche sono restie a concedere nuovi finanziamenti c’è spazio per operatori come illimity intenzionati a chiudere quel gap.

Certamente è una missione nella quale cre­diamo fortemente e, come dicevo, rappresen­ta l’idea ispiratrice da cui è nata illimity. La domanda di credito da parte delle imprese rimane forte sia da parte di quelle che vo­gliono crescere attraverso investimenti ed acquisizioni, sia da parte delle tantissime imprese impegnate nelle transizioni digitali ed energetiche o nelle trasformazioni dei loro settori.

Ma il mercato non vi sta premiando.

Certamente no, ma continuiamo per la nostra strada. Abbiamo pagato il disamore del mercato per il mondo NPL e per quello fintech in generale. Non è molto di moda in questo momento fare credito alle PMI e remunerare i depositi retail. Infine, vogliamo ancora crescere e, di con­seguenza, non possiamo ancora distribuire super dividendi o fare buyback. Le scelte strategiche che abbiamo avuto il coraggio di fare e le “riserve” di valore che stiamo costruendo nelle nostre partecipate, rendono però il nostro titolo particolarmente interessante ad un occhio attento.

Sui conti di illimity, pur in miglio­ramento, mancano però i proventi dall’area distressed che la banca ha abbandonato. È il motore che è stato sostituito.

Stiamo effettivamente sostituendo uno dei due motori dell’aereo in volo. Vengono meno i ricavi dall’investimento in portafogli NPE, ma è molto vasto lo spazio per crescere nelle quattro linee di credito core: finanza strutturata, special situation turna­round, asset based financing e factoring.

Ma una banca, come ogni altra azien­da, può crescere e prosperare se, attor­no a sé, cresce l’economia nel suo com­plesso. Entrano così in gioco i grandi temi della politica. L’Italia sta vivendo una stagione complessa in cui, tra dif­ficile congiuntura economica, guerre ai nostri confini, costruzione europea ancora fragile, è difficile individuare un credibile cammino di sviluppo. Qual è la posta in gioco, e riguarda solo in bel paese?

Non dobbiamo sottovalutare il rischio di per­dere tutto quanto abbiamo costruito in questi 70 anni in termine di pace e di benessere. Noi europei siamo l’esito di un percorso storico di successo di cui dobbiamo essere assolu­tamente orgogliosi. Siamo riusciti a trovare equilibri sempre più avanzati tra valori da sempre considerati antitetici come libertà e uguaglianza, merito e solidarietà, identità e apertura, rispetto ma indipendenza dalle religioni. Le nostre democrazie mostrano tante aree di miglioramento, ma nel mondo e nella storia non c’è oggettivamente di me­glio. Ma per difendere le nostre conquiste l’Europa dev’essere forte economicamente, politicamente, militarmente e culturalmente. Al di là di tante polemiche e di tanti dibattiti autolesionistici, non c’è dubbio che oggi l’Eu­ropa rappresenti un sistema socioeconomico e politico per molti versi invidiabile. Ma non basta per garantire il nostro benessere futuro e la nostra sovranità nel tempo. Anzi, saremo sempre più oggetto di attenzioni pesanti.

Di che cosa avremmo bisogno?

Avremmo bisogno di accelerare. Avremmo bisogno di creare il vero mercato unico per­ché in tanti settori avremmo bisogno di fare investimenti importantissimi. Servono grandi progetti di ricerca, servono infrastrutture co­muni fisiche e digitali, servono grandi pro­getti settoriali che portino alla creazione di campioni europei di statura globale.

Siamo usciti da quasi tutte le graduatorie mondiali dei settori fondamentali del futuro come la tecnologia, i semiconduttori, il bio­medicale, la difesa, le banche. Come Europei siamo praticamente assenti con pochissime eccezioni. Le competenze e gli operatori di mercato per creare dei leader mondiali, le avremmo: l’abbiamo, per esempio, dimostra­to con Airbus.

È necessario investire anche nella di­fesa comune?

La risposta viene dalla storia dello scorso secolo e dalle guerre attuali che ci stanno letteralmente “circondando”. L’Europa non può basare la sua sovranità sulla disponibi­lità americana a difenderla. Il veicolo deve rimanere la NATO, ma con un ruolo militare e politico dell’Europa da pari a pari con gli Stati Uniti.

Per difendere le nostre conquiste l’Europa dev’essere forte economicamente, politicamente, militarmente e culturalmente

Già ma come finanziare tutto questo? Forse con gli eurobond di cui è sem­pre stato un convinto sostenitore? Le sembra che il quadro politico europeo sia favorevole?

Gli Eurobond sono una realtà apprezzata da un mercato di dimensione potenzialmente molto ingente. Come sono stati usati per ragioni solidaristiche di emergenza in oc­casione della crisi sanitaria globale, devono poter essere utilizzati anche per l’emergenza crescita-innovazione-produttività. Nessuno si nasconde le difficoltà e le resistenze, ma nessuno deve nemmeno nascondere i rischi economici, sociali e politici di una Europa de­clinante economicamente, tecnologicamente e militarmente e sempre più dipendente da altre potenze globali concorrenti e potenzial­mente conflittuali.

E allora come?

L’attuale bilancio comunitario non è in gra­do di affrontare un programma del genere. Il suo peso sul PIL complessivo è addirittura in calo e raggiunge a stento l’1%: in gran parte consiste in trasferimenti da alcuni Stati ad altri. È vero che tocca alcuni dei punti cru­ciali per il nostro futuro che abbiamo appena individuato, ma li sfiora soltanto in termini quantitativi e li affida sostanzialmente ai sin­goli Stati. Inoltre, è concentrato su obiettivi – del tutto rispettabili – di difesa dell’esistente come l’Agricoltura – e di coesione con i Fondi strutturali. Manca, di fatto, un bilancio fede­rale che assicuri la realizzazione e il finan­ziamento di quegli investimenti di interesse comune e aggiuntivi rispetto a quelli nazio­nali. Il nostro concorrente diretto – gli Stati Uniti – dispone di questo strumento e ne fa uso con grande forza: una buona parte della crescita americana e dell’aumento della sua produttività è legata proprio ai programmi federali di promozione degli investimenti nei settori chiave: l’IRA è stato uno degli ulti­mi casi. Se noi vogliamo essere potenza, se vogliamo essere sovrani, se vogliamo essere capaci di reggere il nostro sistema economico e sociale dobbiamo crescere di più, abbiamo bisogno di aumentare la nostra produttivi­tà e per aumentare la produttività bisogna fare investimenti. Sono risorse che solo in parte i privati riescono a mettere in campo e dobbiamo prendere atto che i bilanci nazio­nali sono in gran parte esausti. Lo può fare invece l’Europa con un bilancio federale a lungo termine.

Parliamo di numeri.

Per avere un effetto significativo, i nuovi investimenti federali dovrebbero avere di­mensione considerevole. Impossibile fare cifre, ma da anni dico che per muovere un PIL complessivo di circa 15 trilioni di euro, dovremmo probabilmente metterci in condi­zione di attivare investimenti aggiuntivi per non meno di 4-5 trilioni – 4-5000 miliardi – da concentrare in un numero limitato di anni. Anche per questo ho molto apprezzato il Pia­no presentato da Mario Draghi che dimostra la necessità di intervenire con grande forza.

La sfida, però, è soprattutto politica e neces­sita di una leadership coraggiosa, determi­nata e capace di costruire alleanze. Solo cosi si risponde al grande disagio che cresce nei nostri paesi e si evita che il disagio diventi estremismo, inevitabilmente antieuropeo, ma soprattutto nemico della democrazia liberale.

Politica monetaria, che fare?

Bisognava agire fortemente difronte all’infla­zione galoppante ed è stato fatto – magari un po’ in ritardo -, ora bisogna avere il coraggio di prendere atto che l’inflazione è diminuita e che la recessione è di fatto in corso, perché quando si cresce allo zero-virgola è come non crescere. E che è ora, pertanto, di abbassare di più i tassi, senza ulteriori ritardi. La priorità per noi è la crescita sostenuta e sostenibile e non dobbiamo necessariamente sempre allinearci agli Stati Uniti per muoverci anche noi in quanto l’economia Usa mostra dei tas­si di produttività e di crescita di gran lunga migliori dei nostri.

Grattando la superficie quale trend strutturale la preoccupa maggior­mente? Senza dubbio la demografia. Noi sappia­mo che in Italia mancheranno 5 milioni di persone entro 15 anni. Quando parliamo di immigrazione sembra che il problema siano i barconi, quando, invece, dovremo adoperarci per attirare, integrare e mante­nere in Italia

gli immigrati che ci servireb­bero. Magari formandoli e insegnando loro la nostra lingua nei loro paesi di origine. Ma per affrontare l’inevitabile calo demografico dobbiamo adoperarci attivamente anche in altri modi. Prima di tutto, se avremo meno persone in età da lavoro, per non perdere troppo volume di PIL sarà necessaria una maggiore produttività e questo implica più investimenti. Pertanto, dovremmo premiare le aziende che investono in ricerca, tecnolo­gia, innovazione, quelle che si aggregano, si rafforzano. La famosa “industria 4.0” è stata definanziata e solo ora viene riavviata per alcune tipologie di investimento la “5.0”. Il fisco dovrebbe premiare strutturalmente le aziende che investono perché solo con maggiore produttività potremo crescere con meno persone. Segnalo, al riguardo, l’errore fatto con l’abolizione dell’ACE avevamo in­trodotto per premiare le società che mettono capitale nell’impresa, che tengono gli utili in azienda. È stata una delle misure prese dal governo di cui facevo parte che oggi è stata eliminata.

Abbiamo cominciato a parlare di bar­coni ed ora siamo arrivati alla politica industriale. Che altre sorprese riserva il fil rouge sulla demografia?

Dicevamo che all’appello rischiano di man­care 5 milioni di persone in età di lavoro. Già, ma noi siamo anche il Paese dove il tasso di occupazione femminile è uno dei più bassi in Europa. Allora dobbiamo fare tutto ciò che è necessario per permettere alle donne di lavorare se vogliamo recuperare un’altra tessera del nostro puzzle. Siamo anche uno dei paesi con la percentuale più bassa di per­sone impiegate dopo i 60 anni.

E non è finita, credo.

No. Abbiamo un’enormità di persone che non lavorano perché non hanno né le quali­fiche né le capacità per soddisfare le richieste del mondo del lavoro. E ci sono centinaia di migliaia di posti di lavoro non coperti. Evi­dentemente c’è un problema di scuola, di formazione da affrontare.

Con il coraggio di cambiare tanto, non solo nei programmi, ma anche nei metodi di in­segnamento.

Intanto però i nostri figli vanno all’e­stero cercando migliori occasioni di lavoro.

Tutto si tiene. Se non investiamo e non fac­ciamo crescere le nostre imprese, ci saranno meno opportunità per i giovani più preparati che continueranno a emigrare. Ma non se ne vanno solo i giovani con i titoli di studio più elevati. E non parliamo abbastanza del Sud sta letteralmente desertificando. Stiamo correndo gravi rischi, malgrado l’Italia pos­sa approfittare di molti dei trend in atto, ma l’attenzione della politica rimane concentrata sull’elezione dietro l’angolo.

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UN SEMESTRE IN CRESCITA

illimity ha chiuso i conti del primo semestre del 2024 con un utile netto di 23 milioni, in significativo incremento (+43%) rispetto allo stesso periodo dell’anno passato escludendo dal calcolo i proventi straordinari (54 milioni) che nel primo semestre 2023 erano stati contabilizzati con la partnership sulla piattaforma IT.

A conferma dello stato di salute della banca milanese concorre anche il miglioramento del risultato di gestione (+22%) spinto dall’incremento dei ricavi (+5%) e dalla riduzione dei costi (-2%).