Il vento soffia, ma non nella direzione auspicata. La Orsted, azienda leader danese nella costruzione di impianti eolici, è in crisi per gli effetti della decisione della nuova amministrazione Usa di rinnegare gli accordi sul clima di Parigi e di bloccare i programmi ambientalisti. Nei giorni scorsi, Orsted ha cambiato il suo CEO per marcare l’avvio di un cambio di strategia, ridimensionando drasticamente gli investimenti previsti in Usa. Novità arrivano anche da Prysmian, il colosso italiano dei cavi, che nei giorni scorsi ha annunciato il blocco del progetto per costruire in Massachusetts un impianto dedicato alla produzione di cavi per parchi eolici offshore. L’elenco delle imprese alle prese con simili decisioni potrebbe proseguire.
“Drill, baby, drill”
Il vento che soffia è quello rabbioso della nuova cultura antiambientalista di Donald Trump, ben rappresentato da uno degli slogan con cui il neo presidente ha scandito la sua vittoriosa campagna elettorale: “drill, baby, drill!”, trivella baby trivella! Pochi anni fa nessuno avrebbe scommesso un cent sul futuro dell’industria petrolifera, anche se Warren Buffet lo ha fatto continuando imperterrito a investire sulle aziende più esposte alle fonti fossili, Occidental Petroleum, Chevron e PetroChina. Ma ora in difficoltà potrebbero finire i più virtuosi, le imprese che in questi anni si sono incamminate con più decisione nel percorso di transizione energetica e quelle che sono maggiormente esposte all’economia green. Le avvisaglie, per la verità, si erano già viste prima che Trump tornasse alla Casa Bianca.
La Net-Zero Insurance Alliance (NZIA), nata nel 2021 nell’ambito dell’Onu per promuovere gli standard green dell’industria delle polizze, è finita in pezzi per l’ostilità dei petrolieri Usa che avevano minacciato di avviare cause antitrust contro il “cartello” sul clima. All’inizio avevano aderito al club i maggiori 20 gruppi assicurativi al mondo. Dopo le pressioni Usa sono arrivate le dimissioni della gran parte delle compagnie. Soltanto Generali e Aviva avevano resistito. E, alla fine, quell’alleanza è stata sciolta, sostituita dal più blando Forum for Insurance Transition to Net Zero (FIT).
Qualcosa di simile è accaduto anche nell’industria dell’asset manager, dove lo scorso anno BlackRock, il maggiore gestore al mondo, ha annunciato la sua uscita dal Net Zero Asset Managers Initiative, l’organizzazione internazionale nata sulla scia della Cop 26 di Glasgow, che riunisce i principali protagonisti nel mercato dell’asset management attivi nel contenimento della crisi climatica. BlackRock, in precedenza paladino delle battaglie ecologiste, è ora in buona compagnia con big del calibro di JpMorgan, Citi e Bank of America. Tutti spinti a fare dietrofront dalle minacce antitrust dei petrolieri.
In Europa cambiamenti in arrivo con il provvedimento “omnibus”
Se questo è il clima che si respira negli Stati Uniti, in Europa si avvicina il momento di scelte impegnative. Il Vecchio Continente è stato finora all’avanguardia nel mondo nel promuovere i progetti di transizione green con l’unica leva che i burocrati di Bruxelles controllano veramente, quella delle regole. E mentre la Cina, per fare un esempio, ha conquistato in questi anni l’egemonia sulle nuove tecnologie verdi – detiene il 70% della quota globale di moduli fotovoltaici, il 77% delle batterie elettriche, l’84% delle pale delle turbine eoliche offshore e circa il 40% delle pompe di calore (report Ispi del 2023) – l’Europa si è limitata a varare normative sempre più pervasive imponendo alle imprese oneri progressivamente più impegnativi per il rispetto dei principi ESG.
La nuova commissione, frutto delle elezioni dell’autunno scorso, continua ad essere guidata da Ursula von der Leyen ma è più sensibile della precedente alle novità che arrivano dall’altra parte dell’Atlantico ed ha annunciato l’intenzione di introdurre un robusto pacchetto di semplificazione Omnibus, per semplificare le normative sulla sostenibilità che costituiscono il pilastro del Green Deal europeo. In discussione vi sono le revisioni alle direttive sulla tassonomia (sistema di classificazione per identificare le attività economiche sostenibili), sul reporting di sostenibilità aziendale (CSRD), sulla due diligence aziendale per la sostenibilità (CSDDD). Per far capire di cosa stiamo parlando basta pensare che le nuove rendicontazioni sulla sostenibilità impongono alle imprese – soltanto in Italia saranno a regime circa 4mila – di prendere in considerazione ben 1144 data point, cioè singole richieste informative.
Le ragioni delle imprese
Ben si comprende pertanto il perché l’occasione del provvedimento omnibus sia stata colta dal mondo delle imprese per sollecitare una drastica inversione di marcia. In questi giorni, Assonime, l’associazione delle società per azioni, ha pubblicato un position paper in cui si chiede tra l’altro il rinvio di due anni degli obblighi di reporting per le imprese diverse dalle grandi – già obbligate da quest’anno a produrre i report – la sospensione da parte dell’Efrag nella redazione degli standard di sostenibilità settoriali (in aggiunta ai primi 12 “generalisti” già licenziati), il blocco del recepimento della direttiva CSDDD. Sulla stessa lunghezza d’onda è anche l’Oic, l’organismo italiano di contabilità, che ha messo in discussione anche alcuni dei principali postulati sui quali in Europa è stata costruita la rendicontazione di sostenibilità. Ad esempio la cosiddetta “doppia materialità” con cui viene chiesto alle imprese di indicare con precisione nei loro bilanci l’impatto “rilevante” che la loro attività ha sull’ambiente e nella società, distinto dalla rilevanza finanziaria che i bilanci finanziari sono soliti prendere in considerazione. “Benché sollecitato – ha osservato OIC – l’Efrag non è mai riuscito a produrre un esempio concreto in cui un tema è rilevante per la materialità d’impatto e non per la materialità finanziaria.”
… e quelle degli investitori
Ovviamente, dal lato delle organizzazioni ambientaliste e degli investitori green, la scadenza del provvedimento omnibus viene vista non come un’opportunità ma soprattutto come il rischio di un’inversione di rotta sulla sostanza delle politiche di sostenibilità del continente. Un appello firmato da 200 operatori del settore finanziario, che includono 162 tra asset owner e asset manager per un totale di 6,6 trilioni di euro in gestione, chiede a Bruxelles di “preservare l’integrità e l’ambizione” del quadro normativo sulla finanza sostenibile dell’UE. Tra i firmatari ci sono gli italiani Anima SGR, Kairos Partners, Nextalia SGR e Sycomore AM. Una revisione sostanziale dei principi sui quali sono state costruite le direttive europee sulla sostenibilità – hanno affermato – potrebbe creare incertezza giuridica, mettere a rischio la competitività economica a lungo termine dell’Europa e danneggiare gli investimenti. Anche gli investitori comunque concordano sull’esigenza di ridurre efficacemente gli oneri di rendicontazione e la complessità delle normative, migliorando i requisiti di divulgazione e promuovendo un approccio più coerente alla transizione lungo l’intera catena del valore.