Cinema e banche. Un’associazione che, sin dagli albori della settima arte, è stata terreno fecondo per sceneggiatori e registi, anche se, almeno in origine, a senso unico. Perché prima di arrivare ad una autentica soggettivizzazione della banca sul piano cinematografico, quest’ultima è quasi sempre stata confinata in una passiva dimensione scenografica, luogo (e, al più, vittima) di forze criminali impegnate nelle rapine, da quelle più classiche (“mani in alto, questa è una rapina!”) a quelle più ingegnose, figlie di una tecnologia sempre più avanzata. L’immaginario visivo è immenso anche se una elementare polarizzazione cinematografica consente di identificare almeno due tradizionali terreni narrativi, uno più risalente e l’altro decisamente più moderno.
Se, all’inizio, il genere western era tra quelli più visitati per mettere in scena la classica rapina in banca, alternativa all’assalto alla diligenza, con il tempo, la relazione cinema-banca è stata codificata in un vero e proprio filone: il cosiddetto “heist movie” o “caper movie” (il film del colpo grosso) in cui i protagonisti inventano piani sempre più sofisticati per svuotare le casseforti di banche e non solo. Un genere fiorito tra gli anni ’50 e ’60 che, nel tempo, si è evoluto alimentando un campionario di rapine sempre più spettacolari e muscolari che se, da un lato, hanno sterzato con decisione su un prodotto di puro entertainment (lasciando indietro le suggestioni più autoriali), dall’altro hanno contribuito a sminare la tradizionale frattura tra “buoni” e “cattivi”, in un crescendo empatico per figure di rapinatori lontani dal profilo del criminale lombrosiano, sempre più seducenti se non addirittura fieri portatori di messaggi contro il sistema. Ecco, allora, che l’attenzione del cinema si sposta dalla banca come luogo (e dai rapinati come vittime), alla banca come soggetto a cui contrapporsi, sull’onda di istanze di giustizia sociale che hanno avuto, da ultimo, nella serializzazione di un prodotto come “La casa di carta”, un approdo pressoché definitivo.
Ed è in questa fenditura etica che il cinema dell’ultimo ventennio si è insinuato per raccontare il mondo delle banche in modo diverso, fomentato dagli scandali finanziari, dai titoli tossici, dal crollo di istituzioni bancarie che hanno raso al suolo economie e principi, e finito per capovolgere anche l’obiettivo della macchina da presa in una rivoluzionaria inversione dei ruoli, con il banchiere che diventa l’origine dei molti mali della società e, persino, nemesi di estemporanei supereroi quotidiani travolti, loro malgrado, dal sistema. Non è, per vero, una novità se si pensa al personaggio di Henry Potter (curiosa l’assonanza con il mago inventato dalla penna di J.K. Rowling), il perfido banchiere del film di Frank Capra del 1946 “La vita è meravigliosa” o, in una versione più favolistica, al collegio degli incartapecoriti banchieri di “Mary Poppins”, colpevoli, però, di un crimine ancora più grave, quello di annichilire la fantasia e di ingrigire l’esistenza di Mr. Banks.
Ma è solo con il profondo mutamento del contesto bancario e, soprattutto, di quello finanziario, che il cinema cambia passo nei confronti del sistema, ponendo l’interrogativo su chi sia il vero criminale: chi ha fondato la banca con la sua corte dei miracoli o chi ha tentato di contrapporvisi, magari ripulendola? Uno dei film più iconici in questo senso resta “Margin Call” diretto nel 2011 da J.C. Chandor che racconta, minuto per minuto, le 24 ore di Sam (il rinnegato Kevin Spacey), bancario a Wall Street nel 2008, nel momento in cui fallirà una delle più grandi banche di investimento del mondo (il riferimento è, ovviamente, alle vicende di Lehman Brothers e alla crisi dei mutui subprime), innescando una spirale di recessione e crisi finanziarie (e, in minima parte, di coscienza) segnando il tracollo di milioni di persone. Un film “da camera” come, in fondo, lo era anche il suo più prossimo antesignano.
Facendo un passo indietro di quasi vent’anni, “Americani” di James Foley (con ancora protagonista un giovane Kevin Spacey, oltre a due giganti come Jack Lemon ed Al Pacino) non puntava il dito direttamente sulle banche ma, più in generale, sul corporativismo del sistema economico-finanziario americano.
Lo stesso che viene denunciato nel film “La grande scommessa”, forse l’opera più riuscita e recente sulla finanza tossica, diretto, con piglio scatenato e innovatore da Adam McKay (lo stesso che ha realizzato, con “Vice – L’uomo nell’ombra”, il ritratto senza filtri del vicepresidente degli Stati Uniti Dick Cheney e il dissacrante “Don’t Look Up” su una imminente fine del mondo che squaderna ogni regola e principio alla base dell’umanità). Ispirato al libro di Michael Lewis (The Big Short, Rizzoli editore), “La grande scommessa” racconta la crisi finanziaria che ha messo in ginocchio mezzo mondo scegliendo il punto di vista di un piccolo gruppo di speculatori visionari, presi per matti dalle grandi banche, osservate nella loro irresponsabile incoscienza, quella di chi non vuole a nessun costo rinunciare a una fonte di guadagno. Personaggi fuori dagli schemi, a loro modo vincenti, ma a che prezzo? “Vi rendete conto di quello che avete fatto? Avete scommesso contro l’economia americana?”, dice uno di loro. “Se abbiamo ragione la gente perderà la casa, la gente perderà il lavoro. Perderà i risparmi di una vita, perderà la pensione. Per le banche le persone sono dei numeri. Ecco un numero: ogni 1% in più di disoccupati muoiono quarantamila persone, lo sapevate?”.
È forse il più dirompente atto d’accusa contro le banche e tutto sistema finanziario degli ultimi anni al cinema, ancora più efficace perché raccontato con i meccanismi della commedia anziché del dramma, spiegando astrusi concetti tecnici ed economici attraverso cartelli, sovraimpressioni e, soprattutto, dialoghi in macchina al limite dell’assurdo: come quello in cui Margot Robbie, in vasca da bagno, spiega la rischiosità dei subprime o il cuoco Anthony Bourdain scoperchia la truffa delle obbligazioni di debito collateralizzate. Forme cinematografiche inedite che, tuttavia, battono già lì dove il dente duole da un po’. Non è un caso che prima del film di Adam McKay, il documentario (vincitore di un Oscar) “Inside Job” di Charles Ferguson avesse spiegato la crisi del 2009 partendo dal caso dell’Islanda: la creazione di bolle speculative destinate ad esplodere, l’immoralità della scommessa su prodotti derivati, la corruzione e la menzogna delle banche di investimento, colpevoli di vendere pessimi prodotti ai propri clienti mentre, contemporaneamente, scommettono sul loro fallimento. Un’enorme implosione che, però, deve essere controllata per evitare effetti ancora peggiori scaturiti dalla cupidigia del sistema.
Come racconta il film di Curtis Hanson del 2011 “Too Big to Fail – Il crollo dei giganti” quando, dopo la caduta di Lehman Brothers, il segretario del Tesoro del governo Bush costrinse otto grandi banche di investimento ad accettare un prestito forzoso dallo Stato per far ripartire l’economia. Quella economia in cui gli attori, in fondo, sono sempre gli stessi: cadono in piedi, fanno e disfano, vendono e comprano, rassicurano e spaventano. Con il cinema degli ultimi venti anni impegnato a raccogliere le suggestioni di questo contesto malato, ormai lontanissimo dalla figura del banchiere rassicurante e dall’apologo del risparmio e della cautela. Come se, nell’arco di oltre un secolo, l’originario punto di riferimento di quel cinema, prima ancora dell’invenzione dei fratelli Lumiere, non fosse altri che Ebenezer Scrooge, l’avaro finanziare londinese descritto da Charles Dickens in “Canto di Natale”. Era il 1843 e già, allora, la banca sembrava una tana di lupi che avrebbe generato, nel tempo, un esemplare dietro l’altro. Martin Scorsese lo avrebbe chiamato “The Wolf of Wall Street”.