L’industry del credit servicing e purchasing sta attraversando una fase di evoluzione, tipica di un mercato maturo che, dopo l’impetuosa crescita dell’ultimo decennio, deve affrontare numerose sfide alla luce di un contesto competitivo, regolamentare e macroeconomico molto diverso rispetto anche solo a pochi anni fa.
Il contesto competitivo
In primis un mercato “pionieristico” di operatori nazionali, poi l’arrivo dei player internazionali e degli hedge funds, attratti dal massiccio derisking che il sistema bancario ha dovuto affrontare; oggi, un ecosistema diversificato dove convivono grandi operatori, servicer privati, boutique specializzate, hedge fund e challenger bank.
La competizione sempre più serrata ha portato ad alzare l’asticella dei livelli di servizio e della capacità di valutazione e recupero dei crediti. Consolidamento, efficientamento, specializzazione, utilizzo di tool tecnologici, accuratezza delle informazioni sono diventate necessità per ritagliarsi una fetta di mercato e salvaguardare una redditività adeguata: con margini ristretti ed una competizione così serrata non è più concesso “sbagliare” il business plan di un portafoglio o di una nuova commessa.
Certamente un ambiente concorrenziale e con una “torta” sempre più piccola: dai quasi 400 miliardi del 2014, il totale dello stock di NPE si è ridotto a poco più di 300 miliardi.
La competitività sta portando il sistema ad “autofagocitarsi”, con sempre migliori performance di recupero che ogni anno riducono lo stock di crediti da recuperare, senza, come vedremo in seguito, essere compensati da una significativa generazione di NPE “freschi”.
La regolamentazione
La regolamentazione gioca un doppio ruolo nel settore. Da un lato vi è l’impatto sulle banche “originator”, ed i relativi incentivi/disincentivi a mantenere in bilancio determinate esposizioni; dall’altra quello degli operatori del mercato, sia quelli già regolamentati che quelli che finora non lo sono stati, ma che presto lo saranno.
Per quanto riguarda gli originator, le normative introdotte nel tempo (forbearance, New DoD, calendar provisioning) sono volte a limitare la discrezionalità degli intermediari nella classificazione e valutazione dei crediti, evitando l’accumulo di NPE e di rischi finanziari nei bilanci delle banche. Oggi è quindi pressoché impossibile l’emersione improvvisa di significativi nuovi stock, con la nuova regolamentazione che facilita uno smaltimento piuttosto costante e progressivo nel tempo degli NPE. Difficilmente vedremo, in questo contesto, il raddoppio dello stock come avvenne tra il 2010 ed il 2013, dovuto, più ancora che dagli strascichi della crisi post 2008, dall’applicazione per la prima volta su larga scala di criteri armonizzati ed oggettivi per la classificazione e valutazione dei crediti.
Per gli operatori oggi non soggetti a vigilanza, d’altro canto, la recente Secondary Market Directive rischia di essere solamente un primo step verso una piena regolamentazione del settore, con i conseguenti impatti in termini di costi fissi e limiti alla flessibilità operativa.
Da quanto si evince dal recepimento della direttiva in Italia, tuttavia, ne viene ampiamente limitata la portata, con lo “schermo” degli SPV che dovrebbe consentire alla stragrande maggioranza degli attuali player non regolamentati di continuare ad operare esattamente come oggi, benché non sfugga che il ruolo del master servicer (proprio in ossequio ad una maggiore attenzione della Banca d’Italia al settore) sia già cambiato, da mero provider di servizi ad operatore proattivo nella gestione del sottostante, con ricadute operative, informative e gestionali sugli special servicer.
Il contesto macroeconomico
L’enorme iniezione di liquidità, la fiammata inflattiva, la successiva stretta monetaria e le limitazioni al bilancio degli Stati in Europa conseguente al nuovo patto di stabilità, hanno radicalmente cambiato il contesto di mercato.
Il tasso di ingresso a default dopo 6 anni consecutivi (2009-2015) oltre il 3%, si è gradualmente ridotto; negli ultimi 4 anni è stato sotto l’1%, un livello storicamente molto basso, e solo negli ultimi 18 mesi si è leggermente rialzato, ma senza lasciare intravedere nuove ondate, nonostante il rallentamento economico in atto.
Il rialzo dei tassi, unito alle profonde ristrutturazioni dell’ultimo decennio, ha solidificato la posizione delle banche “originator”, che non sono mai state così patrimonializzate, solide, profittevoli e con livelli di NPE ai minimi da almeno un quindicennio. Decisamente cattivi venditori, oggi.
Altro effetto del mutamento di politica monetaria è stato l’indebolimento delle specialty finance bank e degli operatori non bancari che, a differenza delle banche commerciali, hanno visto traslare il rialzo dei tassi di mercato proporzionalmente sul loro costo del funding, oltre ad una riduzione complessiva delle disponibilità liquide, mettendone sotto pressione la profittabilità. Altra “vittima” sono stati i servicer che venivano da importanti campagne acquisti (sia di M&A che di portafogli crediti), ponendo dubbi sulla sostenibilità finanziaria di alcuni operatori del settore.
Conclusioni
Tutto ciò porta ad una seria riflessione sul modello di business più adeguato per cogliere le opportunità che tuttora questo settore offre. Una spinta al cambiamento che già stiamo vedendo, e che verosimilmente accelererà ulteriormente nei prossimi anni. Un’evoluzione che ha già dato risultati tangibili, con la nascita di numerose nuove iniziative e la crescita di segmenti di business in precedenza marginali (finanza prededucibile nell’ambito di crisi aziendali, factoring distressed, UTP management, special lending etc.).
La “cassetta degli attrezzi” dei professionisti del settore è oggi particolarmente evoluta e consente di gestire le situazioni più complesse ed in anticipo rispetto al passato, generando esternalità positive nel sistema (meno aziende che escono dal mercato, maggior facilità nello smaltimento di NPE per le banche).
Altri modelli li vedremo evolvere ulteriormente. La gestione del calendar provisioning per le banche attive nel settore, ad esempio, potrebbe passare dalla combinazione con capitali non regolamentati (come quelli degli hedge fund), la sfida è però mantenere un livello di redditività adeguato. Infine, dovremmo vedere il superamento del modello “ibrido” servicer-investitore; i capitali e la leva devono infatti fluttuare liberamente (specialmente in un mercato dai volumi incostanti e con tassi alti), ed è inefficiente mantenerli “intrappolati” in una società industriale qual è un servicer, che deve invece essere focalizzato sul conseguimento dell’efficienza operativa, concentrando le risorse finanziarie per investimenti tecnologici e operazioni di M&A industriali.