Storicamente il quadro normativo-regolamentare e le prassi di mercato non hanno favorito l’investimento di capitale di rischio in aziende underperforming. In aggiunta, la gestione dei crediti underperforming è stata finora in larga parte affrontata con una logica di mero recupero di breve termine senza tener conto di quanto sarebbe invece necessario per il rilancio di lungo termine delle aziende. Il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza, l’evoluzione della regolamentazione bancaria, i recenti shock macroeconomici e le sfide poste dalla sempre maggior velocità di cambiamento dei modelli di business anche al fine di renderli più sostenibili, stanno creando un ambiente più favorevole all’investimento di capitale in aziende underperforming con l’obiettivo della loro trasformazione e del loro rilancio. Nuovi operatori e nuovi strumenti stanno emergendo in questo segmento. Si potrebbe così creare un circolo virtuoso in cui anche il credito underperforming venga maggiormente valorizzato in una logica industriale di medio-lungo termine.
Peraltro, proprio alla luce dell’attuale contesto, nel prossimo futuro vi è il rischio concreto di un aumento delle aziende che si troveranno a registrare una contrazione della performance e una perdita di competitività. Ciò porrà sempre più l’accento sull’efficienza delle modalità di risoluzione delle crisi aziendali per garantire la tenuta ed il rilancio del sistema paese. Il ruolo degli strumenti di risoluzione delle crisi e dei diversi operatori, a partire dagli investitori, sarà fondamentale da questo punto di vista.
Quali dovrebbero essere gli obiettivi da perseguire per un’efficiente risoluzione delle crisi aziendali?
Sulla base delle evidenze empiriche e dell’esperienza professionale maturata, si ritiene che i seguenti obiettivi dovrebbero ispirare le modalità di risoluzione delle crisi aziendali al fine di massimizzarne l’efficienza:
- reazione tempestiva ai primi segnali di underperformance;
- definizione di credibili piani di rilancio o di liquidazione;
- accesso a nuove risorse finanziarie e/o manageriali.
Al fine di perseguire e raggiungere tali obiettivi non basta un buon impianto legislativo e regolamentare, occorre invece che si crei un circolo virtuoso tra legislazione, giurisprudenza, prassi di mercato, cultura aziendale e manageriale, deontologia professionale, approccio istituzionale, approccio sindacale ed investimenti dedicati.
Come si presenta l’attuale contesto italiano in relazione al perseguimento ed al raggiungimento dei suddetti obiettivi?
Da luglio 2022, in sostituzione della Legge Fallimentare del ’42, è in vigore il nuovo Codice della Crisi d’Impresa e dell’Insolvenza. L’obiettivo primario di tale riforma è il mantenimento della continuità aziendale per la salvaguardia del tessuto economico nazionale, perseguito principalmente attraverso l’anticipazione del rilevamento dello stato di crisi (early warning).
Il legislatore ha introdotto l’obbligatorietà in capo all’imprenditore d’istituire degli adeguati assetti organizzativi in grado di rilevare tempestivamente la crisi dell’impresa e la perdita della continuità aziendale, responsabilizzando gli organi di gestione e di controllo ad intervenire rapidamente per attivare strumenti efficaci di risanamento.
Sempre ai fini del tempestivo rilevamento della crisi, sono stati introdotti sistemi di allerta interni attraverso l’intervento del collegio sindacale e sistemi di allerta esterni all’azienda attraverso l’intervento dell’Agenzia delle Entrate, dell’Inail, dell’INPS e dell’Agente della Riscossione. In aggiunta, è stato messo a disposizione delle imprese un nuovo strumento di risoluzione della crisi: la Composizione Negoziata che consente di avviare un processo di ristrutturazione principalmente in via stragiudiziale, favorendo la continuità aziendale e la rapidità dell’intervento.
L’obbligatorietà di adeguati assetti organizzativi, la spinta per l’emersione anticipata della crisi con il coinvolgimento di segnalazioni esterne, la responsabilizzazione degli organi societari, la messa a disposizione di un più ampio ventaglio di strumenti costituiscono un contesto idoneo allo sviluppo di un mercato del turnaround anche attraverso gli investimenti di fondi di private equity specializzati.
Quali sono le recenti evoluzioni della regolamentazione bancaria?
La normativa bancaria riflette la stessa evoluzione compiuta dal Codice della Crisi di Impresa e dell’Insolvenza verso la tempestiva rilevazione dei segnali di underperformance. Agiscono nella stessa direzione il Calendar provisioning e le Linee Guida LOM emanate dall’EBA. Tale regolamentazione ha indotto il sistema bancario a farsi parte proattiva nella gestione tempestiva delle situazioni di crisi anche attraverso la cessione dei crediti bancari verso aziende underperforming (UTP e Stage 2) o l’affidamento in gestione di tali crediti a servicer specializzati. Ciò dovrebbe creare le premesse per il consolidamento di un contesto favorevole all’intervento di operatori di private equity specializzati nel rilancio delle aziende attraverso l’apporto di capitale di rischio e di competenze manageriali.
Veniamo al contesto di mercato, con riferimento alla presenza di operatori specializzati. Il mercato italiano è storicamente caratterizzato da una presenza limitata di investitori specializzati nell’investimento ed il rilancio di aziende underperforming. In tale contesto nel 2021 il Ministero dell’Economia e delle Finanze ha lanciato il canale indiretto del Fondo Nazionale Ristrutturazioni Imprese (FNRI) nell’ambito del “Patrimonio Rilancio”, la cui gestione è stata affidata a Cassa Depositi e Prestiti, con l’obiettivo d’investire in fondi specializzati nell’investimento in aziende in temporaneo squilibrio patrimoniale e finanziario con adeguate prospettive di redditività e con fatturato superiore a 50 milioni di euro. Sulla base degli indicatori di bilancio degli ultimi tre anni il numero di aziende italiane che rispondono a tali criteri, e quindi potenziali target d’investimento, varia da 800 a 1.000. Tale strumento sta facilitando la nascita di nuovi fondi con strategie riassumibili in tre categorie: fondi di debito, fondi ibridi e fondi di equity.
“Sono tra le 800 e le 1000 le aziende italiane in temporaneo squilibrio patrimoniale ma con adeguate prospettive di redditività e fatturato superiore a 50 milioni di euro”
I fondi di debito investono in situazioni di continuità di governance in cui la risoluzione delle cause della crisi richiede nuovi investimenti per una limitata ristrutturazione. I fondi di equity turnaround si prestano a situazioni in cui oltre a nuove risorse finanziarie è necessario apportare nuovo management con nuove competenze e correggere gli errori gestionali che hanno portato alla crisi. I fondi ibridi tendono a investire in situazioni sia di continuità sia di discontinuità di governance con l’obiettivo d’investire in diversi strumenti della capital structure.
Il FNRI ha finora approvato l’investimento in circa 10 nuovi fondi per circa 100 milioni di euro ciascuno. L’investimento del FNRI in questi fondi è però limitato al 49% della dimensione totale di ciascun fondo. Pertanto, per completare la raccolta di risorse investibili, occorre che si consolidi anche la disponibilità dei principali investitori istituzionali italiani ad investire in tali fondi. Ciò potrebbe portare a mobilitare risorse complessive superiori a 2 miliardi di euro che consentirebbero nei prossimi 5 anni d’investire e rilanciare più di 100 aziende con fatturato superiore a 50 milioni di euro .
Negli anni a venire occorre che ciascuno degli attori coinvolti continui a fare la propria parte per migliorare l’efficienza complessiva del sistema attraverso una sostenibile creazione di valore di lungo termine per tutti gli stakeholders. Le giuste premesse sembrano finalmente esserci.