Fallimento e debiti con il Fisco: quando scatta la bancarotta fraudolenta impropria

Una recente sentenza di Cassazione configura il reato di bancarotta fraudolenta impropria a causa del mancato e metodico pagamento dei debiti d'imposta

0
110

Evitare sistematicamente di pagare i propri debiti d’imposta può condurre il management di una società a commettere il reato di bancarotta fraudolenta impropria: è quanto emerge da una recente sentenza della Cassazione penale (quinta sezione, n. 17140 del 24 aprile 2024) che si pronuncia sul caso dell’amministratrice di una srl dichiarata fallita. Per gli Ermellini è irrilevante aver privilegiato i crediti dei lavoratori, se non si sono pagate le imposte. Perché sussista il dolo basta “la consapevole rappresentazione della probabile diminuzione della garanzia dei creditori e del connesso squilibrio economico” non serve l’intenzionalità di insolvenza.

La vicenda

La Corte d’Appello di Roma, nella vicenda oggetto della pronuncia, aveva confermato la condanna dell’amministratrice unica di una srl poi fallita, accusata di bancarotta “impropria”: si tratta di un reato che non viene commesso dalla società, ma dai suoi amministratori, direttori generali, sindaci o liquidatori. In particolare, l’amministratrice è stato accusata di non aver pagato le tasse in modo sistematico e intenzionale, causando così il fallimento della società. La Corte ha anche riconosciuto che c’era un’aggravante, del danno patrimoniale di rilevante gravità.

L’imputata aveva poi fatto ricorso alla Cassazione contro questa sentenza, sostenendo che la Corte d’Appello avesse erroneamente ritenuto che il mancato pagamento delle tasse fosse una scelta deliberata dell’amministratore. Si trattava, viceversa, di una serie di circostanze sfavorevoli, come il mancato pagamento dei crediti da parte dei clienti e la necessità di pagare prima i dipendenti. Tuttavia questi mancati pagamenti dei crediti sono stati ritenuti irrilevanti dalla Corte. Inoltre, la difesa ha contestato l’aggravante del danno economico grave, sostenendo che la Corte d’Appello non ha considerato le argomentazioni secondo cui il comportamento dell’imputata non aveva realmente ridotto le risorse della società.

Il dolo nella bancarotta

La Suprema Corte ha ribadito che, per la bancarotta impropria, il dolo implica la consapevolezza del probabile peggioramento della situazione economica dell’azienda e della diminuzione delle garanzie per i creditori, anche se non c’è l’intenzione di portare l’azienda all’insolvenza. Nel caso specifico, i giudici hanno chiarito che l’amministratrice della società fallita era consapevole di queste conseguenze negative derivanti dalla sua condotta, in particolare per il mancato pagamento sistematico delle imposte dal 2005 al 2013. Questa condotta ha portato ad un debito di oltre otto milioni di euro.

La Cassazione ha sottolineato che la responsabilità penale dell’amministratrice non può essere esclusa solo perché ha affermato di non aver riscosso alcuni crediti e di aver dato priorità ai debiti verso i lavoratori. Queste argomentazioni non sono sufficienti a interrompere il legame tra le sue azioni e il danno economico subito dalla società. La Corte d’appello ha giustamente mantenuto la condanna per bancarotta fraudolenta, ritenendo che le scelte gestionali dell’amministratrice non fossero adeguate a giustificare il mancato pagamento delle tasse e non fossero sufficienti a escludere la sua responsabilità penale.

Il danno patrimoniale di rilevante gravità

Gli Ermellini hanno chiarito inoltre che l’aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità può essere applicata anche ai casi di bancarotta impropria. Ciò perché la legge fa riferimento a tutte le forme di bancarotta e prevede le stesse pene per bancarotta impropria come per quella propria. La Corte ha quindi confermato che non c’erano errori nella sentenza della Corte d’Appello, che aveva considerato il valore totale dei beni sottratti all’esecuzione fallimentare per determinare la gravità del danno, piuttosto che il danno individuale a ciascun creditore.

Nel caso specifico, la Corte ha rilevato che il debito fiscale costituiva quasi tutto il passivo della società fallita, confermando così la gravità del danno. Hanno ribadito che l’aggravante del danno rilevante non si applica solo se il danno complessivo ai creditori non è grave, ma nel caso in questione, il danno era chiaramente rilevante. La Suprema Corte ha quindi dichiarato inammissibile il ricorso e ha condannato la ricorrente a pagare le spese processuali.