La maxi confisca da circa un miliardo di euro disposta contro gli ex vertici della Popolare di Vicenza, tra i quali l’ex presidente Giovanni Zonin, era illegittima perché viola il principio costituzionale della proporzionalità della pena. Lo ha stabilito la Corte Costituzionale in una sentenza che ha dichiarato la parziale incostituzionalità della norma di legge (l’articolo 2641, primo e secondo comma, del Codice civile) che dispone l’obbligatoria confisca di tutti i beni utilizzati per commettere un reato societario.
In base a quel principio, il Tribunale di Vicenza aveva disposto a carico di quattro imputati top manager dell’istituto – ha scritto Il Sole 24 Ore – la confisca di 963 milioni di euro, ritenendo l’importo corrispondente alle somme di denaro utilizzate per la commissione dei reati di aggiotaggio e di ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della BCE. Si trattava – come si ricorderà – dei cosiddetti finanziamenti «baciati» con cui l’istituto di Zonin accordava i crediti a patto che i beneficiari diventassero soci dell’istituto.
L’obbligo di disporre la confisca di tutti i beni utilizzati per commettere un reato societario, anche nella forma per equivalente, può condurre a risultati sanzionatori manifestamente sproporzionati ed è pertanto incompatibile con la Costituzione. La questione era già stata sollevata dalla Cassazione ed ora, a conferma, è giunta anche la pronuncia della Consulta. La norma contestata – è detto nella sentenza – obbliga «il giudice a imporre al soggetto un sacrificio patrimoniale, la cui entità dipende esclusivamente dal valore dei beni che, in concreto, sono stati utilizzati per commettere il reato. Ciò senza alcuna relazione con l’effettivo vantaggio patrimoniale conseguito mediante la commissione del reato; e senza alcun correttivo che consenta al giudice di valutare, in ciascun caso concreto, se il soggetto disponga effettivamente delle risorse per far fronte all’ablazione patrimoniale impostagli, né quale impatto tale ablazione possa avere sulla sua esistenza futura».
Quanto alla possibilità di una confisca meramente facoltativa, la Corte Costituzionale ha rinviato la questione alla decisione del legislatore. «Ciò detto – ha fatto presente Italia Oggi – permane l’obbligo di confiscare integralmente i profitti ricavati dal reato, in forma diretta e per equivalente, così come resta inalterata la facoltà del giudice, nel rispetto del principio di proporzionalità, di disporre la confisca diretta delle “cose che servirono a commettere il reato” ai sensi della disposizione generale di cui all’art. 240 cod. pen., richiamata dal terzo comma dell’art. 2641 cod. civ.».
E che ne sarà ora del «tesoro» di Zonin composto, tra l’altro, dalla villa di Montebello, dal palazzo di contrà Pozzetto in centro a Vicenza, oltre al 2% di quote della società Tenuta Rocca di Montemassi srl, il 26,9% delle quote della Gianni Zonin Vineyeards sas. E ancora quote pari al 38,55% della società Zonin Giovanni sas, oggi 1821 Vineyards sas di Domenico Zonin & C.. Infine il 31% delle quote della San Marco srl?
«Attenzione a non travisare» ha messo in guardia sul Mattino di Padova il legale Enrico Ambrosetti, che difende l’ex presidente di Bpvi. «La sentenza della Consulta va proprio nell’interesse delle parti civili». I sequestri dei beni scaturiscono dalle azioni civili esercitate nel corso del processo penale. Tutti i beni di Zonin e soci sono sotto sequestro dal 2017 e il provvedimento è stato eseguito proprio nell’ottica del risarcimento alle parti civili. Ora c’è quindi una concreta possibilità di ottenere un risarcimento, cosa che sarebbe stata impossibile se fosse stato dato l’ok alla confisca a beneficio dello Stato. Chi pensava che i beni sarebbero tornati nella disponibilità di Zonin, aveva quindi frainteso la pronuncia della Corte.