Green Deal: l’Europa tra i divieti e le difficoltà di attuare una politica industriale coerente

Lo stop dell’UE a vendere macchine a benzina o diesel a partire dal 2035 mette a nudo la debolezza della policy green dell’Unione. In discussione il futuro dell’automotive che dipende dai finanziamenti per oltre €300 miliardi e che, solo in Italia, impiega 230.000 addetti.

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All’indomani dell’insediamento del nuovo Parlamento Europeo, con la rielezione di Ursula von der Leyen alla Presidenza e, di fatto, la conferma della linea politica attuale, il Presidente di Confindustria, Emanuele Orsini, si è detto preoccupato della centralità del Green Deal perché, ha fatto presente, la decarbonizzazione costerà solo all’Italia oltre 1.100 miliardi di euro nel prossimo decennio.

Se da un lato la transizione energetica è entrata a far parte dell’agenda politica, dall’altro lato sull’argomento è calata una progressiva cautela, in singoli paesi, da parte di chi prende le decisioni politiche ed imprenditoriali. Non si tratta necessariamente di un passo indietro rispetto alla centralità del tema, ma di valutazioni più ponderate circa i modi, i tempi e soprattutto i costi della transizione energetica. Valutazioni intorno alle quali si è acceso un dibattito che ha visto contrapposizioni all’inizio timide, almeno in Europa, ma oggi più decise. Non sembra, a ben vedere, la classica dialettica tra conservatori, naturalmente favorevoli a difendere l’esistente, e progressisti, desiderosi di disegnare un futuro migliore, ma piuttosto un esercizio di realismo. Lo confermano le parole di Mario Draghi che ha presentato all’Unione Europea il suo report sulla competitività:

“La decarbonizzazione deve avvenire per il bene del nostro pianeta. Ma affinché diventi anche una fonte di crescita per l’Europa, avremo bisogno di un piano congiunto che abbracci le industrie che producono energia e quelle che consentono la decarbonizzazione, come la tecnologia pulita e l’automotive”.

A ben vedere, per ogni capitolo in cui si declina il complesso percorso della transizione energetica si intravedono due facce della medaglia, quella dell’opportunità e quella del costo, e per far pendere la bilancia verso l’opportunità servono alcuni ingredienti: l’infrastruttura, la tecnologia, il sostegno economico in un contesto normativo bancabile. Se è questa la ricetta, l’Italia deve domandarsi se ha gli ingredienti per far fronte alla sfida. Le imprese italiane ce la stanno mettendo tutta, il sistema produttivo tiene e l’export cresce, ma con un costo dell’energia più alto dei competitors, tasse sulle emissioni senza incentivi alle imprese virtuose, in un contesto normativo confuso con poca visione industriale, la ricerca tecnologica che arranca e gli investimenti infrastrutturali che non si concretizzano, il costo finisce per prevalere sull’opportunità.

Sul filo di questa dicotomia, tra opportunità e costo della transizione energetica, si gioca in Europa anche la partita dell’auto elettrica, tra la moda scatenata dall’ascesa del marchio Tesla, che ha spinto la domanda oltre le attese, e la messa al bando del motore endotermico a partire dal 2035, decisa dall’Unione Europea contro cui si batte la Germania (l’Italia si è astenuta), oltre a Confindustria.

Mentre le case automobilistiche tradizionali hanno inizialmente contrastato e cercato di ritardare l’avvento dell’elettrico, per via della legacy tecnologica che tuttora rappresenta un costo enorme alla loro transizione, la Cina ha visto l’opportunità di muoversi in anticipo e dettare le regole del nuovo mercato, spiazzando la concorrenza. In particolare la produzione cinese di batterie al litio ha sostenuto la commercializzazione di veicoli elettrici, ma nonostante nell’ultimo decennio i costi di queste batterie si siano ridotti di oltre l’80% (fonte Bloomberg), restano alti rispetto ai costi di produzione dei motori endotermici. Se questo può non rappresentare un ostacolo per i veicoli di gamma medio alta (sopra i 50.000 euro di prezzo) è invece una forte barriera nel mercato dei veicoli più economici, dove i consumatori non sono disponibili a pagare un premio e le case automobilistiche non possono assorbire una minore redditività.

Se pensiamo che in Europa solo il 10% delle nuove immatricolazioni è oggi elettrico – trend peraltro il leggera flessione, per un atteggiamento più cauto dei consumatori dopo l’entusiasmo iniziale – e solo il 2% dei quasi 260 milioni di auto in circolazione, si ha la misura della distanza da colmare e del rischio connesso al bando del motore endotermico in tempi troppo stretti rispetto a frontiere che la tecnologia ancora non ha conquistato.

È noto infatti che molti progetti di ricerca finanziati con risorse europee, così come gran parte degli investimenti dei produttori privati, guardano ad alternative alle batterie al litio, che da molti addetti ai lavori non è considerata il futuro dell’elettrico. Peraltro nel recente Bollettino Economico la Banca Centrale Europea ha dedicato un intero capitolo al settore automotive,

Will the euro area car sector recover?”, in cui, messa a fuoco la centralità del settore per l’economia dell’Unione e identificate le sfide e minacce della transizione energetica, conclude che la resilienza fin qui mostrata dai produttori di auto europei necessita di una rapida integrazione dei processi digitali nella manifattura tradizionale, e più in generale di un’innovazione tecnologica decisiva che guidi il mercato, emancipandolo dalle forniture made in Asia. A questo proposito sempre la BCE menziona le politiche industriali come fattore decisivo di successo, lasciando intendere che gli obiettivi scritti nel Green Deal da soli non bastano a garantire che l’industria sopravviva alla transizione.

D’altra parte se sulla recessione della Germania pesa in maniera evidente il crollo dell’export automotive del 25%, con il sorpasso dell’export cinese nel 2022, non stupisce che questo trend preoccupi anche l’Italia, che nel settore automobilistico tradizionale, in larga parte indotto, impiega oltre 230.000 addetti e fattura il 5,6% del Prodotto Interno Lordo (fonte ANFIA).

Quello che si fatica a leggere, fra le righe della transizione energetica, è quanto il settore sia esposto in termini di indebitamento verso il settore bancario, e quanto verso la propria clientela, con politiche aggressive che tentano di sostenere la domanda.

L’indebitamento dei principali gruppi automobilistici europei posizionati anche sulla fascia bassa del mercato, Volkswagen, Renault e Stellantis, ammonta oggi complessivamente a quasi 300 miliardi di euro, la metà dei quali a fronte di crediti per finanziamenti (fonte FactSet DCS).

Nell’autunno 2023, la banca d’investimento UBS aveva peggiorato il proprio outlook su questi titoli azionari, vedendo nell’Europa il mercato più esposto alla competizione cinese (“Will Chinese electric vehicles (EVs) win globally?”), non solo per la pressione degli obiettivi fissati dal Green Deal, ma anche per la sostanziale assenza di barrire all’entrata. Diversa la situazione negli Stati Uniti, che con l’Inflation Reduction Act (IRA) e l’Energy Infrastructure Reinvestment Program (EIR) hanno rafforzato nel 2022 i sostegni alla transizione energetica, stanziando 369 miliardi di dollari in parte su capitoli specifici dedicati alla mobilità elettrica, in termini di infrastruttura, tecnologia e manifattura. Secondo le stime di JP Morgan, con l’entrata in vigore del programma un importo doppio di investimenti privati si è indirizzato al mercato e altrettanto in termini di leva finanziaria, in un contesto normativo chiaro, quanto basta per garantire alla filiera produttiva americana un vantaggio competitivo importante, a cui anche i produttori europei guardano oggi in logica di delocalizzazione.

La sfida della transizione energetica europea si gioca quindi oltre i confini dei singoli Stati, e non riguarda solo l’ambiente, ma anche l’occupazione e la crescita economica: scrivere che la trasformazione va fatta entro una data senza discutere insieme di come farla comporta, in questo contesto di market disruption, che pochi la facciano e molti restino indietro.