Il mito dell’indipendenza della Banca Centrale

La politica economica del Regno Unito è alla deriva: la Bank of England non è stata in grado di prevedere la peggiore inflazione degli ultimi quarant'anni.

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Bank of England

La politica economica del Regno Unito è alla deriva. Que­sta è stata la principale conclusio­ne dell’inchiesta della Commissio­ne per gli affari economici della Camera dei Lord sull’incapacità della Bank of England (BoE) di prevedere la peggiore inflazione degli ultimi quarant’anni. In un recente rap­porto la Commissione ha criticato la cultura interna e i modelli di previsione della BoE, mettendo in dubbio la sua capacità di ripor­tare l’inflazione al target del 2% entro il 2025.

Il tasso di inflazione annuale del Regno Unito ha raggiunto il picco massimo dell’11% degli ultimi quarant’anni nell’ottobre 2022, mentre i prezzi complessivi sono aumentati del 22% negli ultimi tre anni. Il rapporto della Camera dei Lord ha attribuito gli errori della BoE al “pensiero di gruppo” tra i funzionari, a un mandato sempre più vago (che ora include considerazioni come il cambiamento climati­co) e a strumenti di previsione “inadeguati”. L’ex presidente della Federal Reserve statu­nitense Ben Bernanke, incaricato dalla BoE Warwickdi esaminare le sue performance, ha evidenziato l’obsolescenza del software della banca. La Commissione ha anche sollevato valide preoccupazioni sul “potere non eletto” dei banchieri centrali.

Nel 1997 l’allora Cancelliere dello Scacchiere Gordon Brown fissò l’obiettivo di inflazione annuale del Regno Unito al 2,5% (successivamente ridotto al 2%) e diede alla BoE l’“indipendenza operativa” per raggiungerlo. Da allora la Banca ha assunto un controllo ancora maggiore sulla politica economica, pompando 875 miliardi di sterline (1,1 trilioni di dollari) nell’economia britannica attraverso il suo programma di “quantitative easing” in risposta alla crisi finanziaria globale del 2008/2009. Come ha osservato il presidente della Commissione Affari Economici George Bridges, l’aver esternalizzato la politica macroeconomica dal governo ai banchieri centrali – ora pratica standard nelle economie sviluppate – ha rappresentato “un enorme trasferimento di potere dai rappresentanti eletti ai funzionari non eletti”.

Dato che i tassi di interesse influenzano non solo il valore del denaro, ma anche la disoccupazione, la crescita e la distribuzione, si potrebbe sostenere che la politica monetaria, come la politica fiscale, debba essere gestita dai governi, che sono responsabili nei confronti degli elettori. Tuttavia, nonostante le critiche all’operato della BoE, il rapporto non ha messo in discussione il principio dell’indipendenza della banca centrale. Invece, si sono concentrati sulle modalità per allineare la libertà della Banca di fissare i tassi di interesse “indipendentemente dalla pressione politica” con la responsabilità del governo per la politica economica.

L’idea che l’indipendenza della banca centrale sia sacrosanta risale alla controrivoluzione monetarista di Milton Friedman negli anni ‘70, che pose fine all’egemonia della socialdemocrazia keynesiana.

Friedman sosteneva che le economie di mercato sono “anticiclicamente stabili” al loro “tasso naturale di disoccupazione”, a condizione che i partecipanti al mercato non siano ingannati dai tassi di inflazione variabili. Questa argomentazione restringe di fatto l’ambito della politica macroeconomica al mantenimento della stabilità dei prezzi.

Dal momento che la politica monetaria, come la politica fiscale, influenza l’attività economica con “ritardi lunghi e variabili”, affidare il controllo dell’inflazione alle banche centrali indipendenti – isolate dall’interferenza politica e operanti secondo regole meccaniche – impedirebbe ai politici di manipolare l’offerta di moneta.

I banchieri e gli esperti di politica economica si sono affrettati ad abbracciare il vangelo monetarista di Friedman. In un discorso del 1984, l’allora Cancelliere dello Scacchiere Nigel Lawson capovolse la precedente ortodossia keynesiana. A suo avviso, l’obiettivo della politica macroeconomica dovrebbe essere “la conquista dell’inflazione”, non “il perseguimento della crescita e dell’occupazione”. Al contrario, la politica microeconomica dovrebbe concentrarsi sulla “creazione di condizioni favorevoli alla crescita e all’occupazione”, piuttosto che sulla soppressione dell’inflazione.

La lezione di Lawson ha rappresentato un ritorno alla “dicotomia classica” dell’economia pre-keynesiana, che tratta le variabili reali (come l’occupazione) e le variabili nominali (come i livelli dei prezzi) come separate. Secondo questo punto di vista, le riforme dal lato dell’offerta aumenterebbero l’efficienza economica e le politiche dei tassi d’interesse manterrebbero la stabilità dei prezzi.

I dati macroeconomici raccontano una sto­ria contrastante. L’era postbellica può essere divisa in due periodi distinti: l’età dell’oro keynesiana (1947-1973) e la “Grande Mo­derazione” del monetarismo (1997-2019). Escludendo gli anni successivi, l’inflazione nel Regno Unito si aggirava in media al 4,5% durante l’era keynesiana e la disoccupazione al 2,1%. Sotto la gestione della banca centrale il tasso di inflazione si attestava in media di poco al di sopra del 2%, mentre la disoccu­pazione media era al 5,6%. I tassi di crescita nei due periodi sono stati rispettivamente del 2,8% e del 2%.

In altre parole, i risultati macroeconomici sotto i due regimi erano nettamente diversi. Inoltre, l’“indice di miseria” (il tasso di di­soccupazione più il tasso di inflazione) era al 6,6% durante l’età keynesiana e al 7,8% nell’era dell’indipendenza della banca cen­trale. Dal 2020 è salito al 9%.

A dire il vero, è impossibile stabilire se questi accadimenti siano stati il risultato di eventi politici o esterni. Già nel 1968 l’economista R.C.O. Matthews si chiedeva se la piena occu­pazione dell’epoca d’oro keynesiana dovesse essere attribuita alla politica del governo o a un boom secolare del dopoguerra. Si potreb­be anche sostenere che la bassa inflazione che caratterizzò la Grande Moderazione ebbe meno a che fare con le politiche della banca centrale che con l’ingresso di miliardi di la­voratori a basso reddito provenienti dall’Asia nel mercato del lavoro globale.

Ma dato che la politica economica influisce in modo significativo sulla performance eco­nomica, è difficile sostenere che la politica fiscale e quella monetaria debbano essere tenute separate. Le banche centrali control­lano l’offerta di moneta attraverso i tassi sui prestiti concessi alle banche commerciali. Ciò stabilisce la struttura dei tassi d’interesse a lungo termine, determinando i tassi ai quali i mutuatari possono accedere ai fondi, il che a sua volta influenza gli investimenti e la di­soccupazione.

In poche parole, se i governi devono essere ritenuti responsabili degli investimenti e della disoccupazione, devono anche controllare la politica monetaria. Inoltre, mentre le banche centrali si sforzano di mantenere l’apparen­za dell’indipendenza, la realtà è che spesso fanno ciò che vogliono i governi. Anche se è impossibile prevedere quale quadro ma­croeconomico emergerà dalla nostra attuale epoca di turbolenze, con molta probabilità poco somiglierà all’ideale friedmaniano.