“Una storia di successo iniziata assai male”. Giovanni Sabatini, riassume in poche parole la vicenda che ha portato il sistema creditizio italiano a liberarsi in pochi anni della gran massa di Non Performing Loan (NPL) che appesantivano i suoi bilanci. E che, all’indomani della crisi dei debiti sovrani, proiettavano ombre scure sulla resilienza delle banche del Bel Paese. L’esodo è stato massiccio.
Dal 2015 a fine 2023 – i dati vengono dalla Banca d’Italia – dei circa 360 miliardi di crediti distressed in capo alle banche della penisola circa 300 sono stati ceduti dalle aziende creditizie nella maggioranza a servicer e a intermediari specializzati. Nello stesso periodo la percentuale delle sofferenze in rapporto all’ammontare totale dei prestiti è crollata dal 16,5 al 2,7 per cento in linea con la media del continente
Sabatini ha vissuto per intero questa transumanza del credito. Per 15 anni direttore generale dell’Abi, con un passato in Consob e al Ministero dell’Economia, ha abbandonato da qualche mese la guida operativa dell’associazione bancaria e proprio nelle scorse settimane ha iniziato una nuova avventura con la nomina a trustee della IFRS Foundation, l’organismo di supervisione di chi redige i principi contabili internazionali.
Quella degli Npl sembra una storia a lieto fine. Perché è iniziata male? “Il punto di partenza è la grande crisi finanziaria del 2008 che poi in Europa, nel 2011, si tramuta nella crisi dei debiti sovrani. Gli effetti di quelle crisi su imprese e famiglie determinano l’impressionante aumento dei crediti deteriorati. Su questa situazione, nel 2015 – ricorda Sabatini – si inserisce la vicenda delle quattro piccole banche del centro Italia finite in risoluzione (Banca delle Marche, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Cassa di Risparmio di Ferrara, Cassa di Risparmio di Chieti). Simili crisi in precedenza erano state gestite tramite gli interventi del fondo di tutela dei depositi (FITD) ma tale percorso, in quell’occasione, era precluso dalla precedente decisione della Commissione europea che, in relazione alla gestione della crisi di Banca Tercas, aveva sostenuto che l’intervento del FITD avrebbe violato le norme sugli aiuti di stato in Europa”.
L’interpretazione della Commissione fu poi sonoramente cassata prima dal Tribunale UE e poi dalla Corte di Giustizia, ma le due sentenze non poterono cambiare le disastrose conseguenze di quella iniziale errata interpretazione della DG Comp della Commissione. Nel novembre del 2015 quindi, a fronte della irreversibilità della crisi delle quattro banche, si dovette attivare la procedura di risoluzione con anche la conseguenza di far sopportare una parte delle perdite anche di chi aveva investito i suoi risparmi nei subordinati di quei piccoli istituti di credito per effetto dell’applicazione del principio del “burden sharing”. Successivamente, anche a seguito di complessi negoziati con la Commissione, i risparmiatori furono parzialmente indennizzati.
Ma perché questa storia si salda con quella degli NPL? “Nell’ambito della procedura di risoluzione occorreva valutare i portafogli di NPL presenti nei bilanci di quelle banche. Ancora una volta la DG Comp intervenne ‘a gamba tesa’, indicando come unica valutazione accettabile, in quanto approssimativa del valore teorico di cessione immediata dei crediti, una valutazione di quelli collateralizzati pari al 25% dell’importo erogato e di quelli non collateralizzati pari all’8%, di fatto una valutazione media di quei crediti pari al 18%, sebbene le serie storiche relative ai valori di recupero dei crediti deteriorati in Italia mostrassero valori nettamente superiori”.
La cessione di quegli asset con un simile deprezzamento ampliò le perdite dei quattro istituti rendendo necessario il coinvolgimento anche dei piccoli risparmiatori. Ma l’altro grave effetto collaterale di quella decisione della DG Comp fu che stabilì un precedente, un “benchmark” per la valutazione dei crediti deteriorati nei portafogli di tutte le banche italiane. “A nulla servirono le critiche di chi, esibendo le serie storiche sul credito, mostrava che le sofferenze in Italia avevano sempre avuto percentuali di recupero molto maggiori (intorno al 40%). Le authority di Bruxelles rimasero inflessibili e la ‘soluzione 18%’ rimase il benchmark per le cessioni dei grandi portafogli di credito di quegli anni”. Una bella trappola, verrebbe da dire. Ma non tutte le banche italiane si trovavano nella situazione critica dei 4 istituti del centro Italia. Potevano quindi mantenere al loro interno quei crediti difficili e gestirli come avevano sempre fatto.
“Peccato – ricorda ancora Sabatini – che la fantasia del regulator è spesso inesauribile. E i suoi frutti non sono sempre desiderabili”.
Se può essere condivisa la finalità delle autorità di vigilanza a rafforzare patrimonialmente le banche europee dopo la grande crisi finanziaria, gli strumenti scelti per raggiungere lo scopo, specie con riferimento al rischio di credito, hanno invece sollevato molte perplessità. Nel 2016 l’Eba, l’authority bancaria europea – ricorda ancora Sabatini – diffuse le sue linee guida per la definizione di default al fine di giungere ad un criterio unico per tutta Europa nel riclassificare come deteriorati i crediti accordati alla clientela. Tra queste linee guida veniva inserita una previsione che limita fortemente la possibilità di una banca di offrire “misure di tolleranza” a un debitore in temporanea difficoltà. In particolare, se una ristrutturazione del debito offerta al debitore riduce di oltre l’1% il valore della esposizione originaria, l’intera esposizione verso quel debitore deve essere immediatamente riclassificata come deteriorata. “In precedenza i regolatori nazionali utilizzavano una flessibilità molto maggiore che includeva anche il ricorso a misure di forbeance (concessioni) per agevolare i debitori in difficoltà (in Italia la soglia era del 5%). L’1% si è rivelata una misura troppo restrittiva e rigida. Con l’aumento dei tassi d’interesse, qualsiasi ristrutturazione di un debito è finita in quella mannaia”.
Così, riclassificati quegli asset, sono incappati in un’altra regola, “un meccanismo perverso” – così lo definisce l’ex direttore dell’Abi – del regolatore europeo, racchiusa in due parole inglesi dall’aria innocua: calendar provisioning. Con quell’espressione si intende la procedura di accantonamenti progressivi al semplice decorrere del tempo definita in sede europea per i crediti deteriorati. Con quella svalutazione progressiva, indipendentemente dal dato storico di capacità di recupero del collateral di un credito (normalmente un immobile dato in garanzia), in sette anni il valore di quella esposizione deve essere azzerato.
“È stato inutile far presente l’aspetto insensato e perfino prociclico di una simile regola, e neppure sottolineare che una simile svalutazione contrastava anche con le regole dei principi contabili internazionali IFRS. Il regolatore europeo è andato per la sua strada. Quello che era inizialmente (dal 2017) soltanto una pratica consigliata dalla vigilanza è stata successivamente incorporata nelle regole di Basilea III ed è pertanto divenuta cogente”.
Una simile tenaglia regolamentare ha costretto le banche a disfarsi il più rapidamente possibile dei loro crediti difficili. Era l’obiettivo che il regolatore si proponeva fin dall’inizio, ma a che prezzo è stato realizzato? “Che in questo passaggio di mano – sottolinea Sabatini – ci sia stato un consistente trasferimento di ricchezza dalle banche e dai loro azionisti ai fondi che hanno rilevato quegli asset, anche fondi speculativi, questo mi sembra un dato di fatto”. È sicuramente vero che prima degli interventi delle autorità europee, in particolare del SSM della BCE, la gestione dei crediti deteriorati era in molti casi lacunosa e approssimativa. Quando un credito andava in malora si passava la pratica ad un legale esterno e le banche rinunciavano ad una gestione attiva di quelle esposizioni. Soprattutto la qualità delle informazioni relative alle esposizioni e alle connesse garanzie era assolutamente insufficiente. Anche ai fini delle successive operazioni di cessione e di cartolarizzazione è stato fatto un grande lavoro per avere un set di dati preciso, dettagliato e aggiornato sulle esposizioni deteriorate, come – in questo caso giustamente – richiesto dalle autorità di vigilanza.
È una storia ormai passata e in fondo è stata, appunto, una storia di successo. Il problema degli Npl è stato superato con successo e con tempi che hanno sorpreso anche i supervisori. È certamente migliorata la capacità di gestione del rischio di credito e questo è testimoniato anche dai valori sui nuovi flussi di crediti deteriorati che – nonostante il quadro economico di bassa crescita – rimangono su livelli più bassi di quelli antecedenti la grande crisi finanziaria. Che sta succedendo, forse le banche stanno razionando il credito per evitare di incappare in brutte sorprese? “No, non mi sembra sia in atto un razionamento del credito, il rallentamento a cui stiamo assistendo è un problema di domanda più che di offerta, le aziende che vanno bene non ne hanno bisogno, dispongono ancora di molta liquidità e, poi, l’incertezza sulle prospettive economiche in relazione al complesso scenario globale frena gli investimenti”.
Tornando a quanto è accaduto in questi anni, c’è un altro aspetto che sorprende. Il quadro delle regole europee ha spinto la gran massa dei crediti difficili al di fuori del perimetro delle banche, che sono soggetti regolamentati, verso chi (i servicer) non è vigilato allo stesso modo. Ed ora, con la direttiva sul mercato secondario dei crediti, è costretta a regolamentare anche loro. “La via maestra è di consentire alle banche di tornare a fare il loro mestiere, lasciare loro maggiore flessibilità nel gestire le situazioni difficili, nell’aiutare le aziende in temporanea difficoltà, che dopotutto sono i loro clienti, a superare i momenti difficili. E soprattutto, occorre ripensare al più presto regole con effetti prociclici e negativi quali il calendar provisioning”.