La ricchezza di una Nazione, almeno dai tempi di Adam Smith, non è rappresentata dalle sue risorse naturali. La ricchezza di una Nazione è la propria efficienza. Questa può essere misurata in vario modo ma non c’è dubbio che l’efficienza della macchina giudiziaria rappresenti un fondamentale fattore di sviluppo economico. È un aspetto nel quale, per dirla con un eufemismo, l’Italia non eccelle. Il problema non si limita alla durata dei processi ordinari, ma anche all’incertezza interpretativa della norma, spesso legata, anch’essa, al lungo tempo trascorso tra la domanda e la decisione.
Gli studi contenuti nei periodici rapporti editi dalla Banca Mondiale dimostrano una correlazione diretta tra diritto e crescita economica e la conseguente competitività di una nazione.
Nell’ultima classifica stilata da Doing Business 2023, su 189 Paesi al mondo oggetto di rating, l’Italia continua ad occupare il 58° posto (almeno dal 2020, nel 2015 era al 56° posto) dopo Marocco, Cipro, Romania, Kenya e Kosovo, anche in considerazione del fatto che risolvere una controversia commerciale in Italia richiede più tempo e risulta più costoso che in tutto il resto dell’UE. Il Regno Unito, che ha dato i natali ad Adam Smith (per una volta “profeta in patria”), si mantiene stabilmente all’8° posto.
Come sappiamo, il problema della durata delle procedure giudiziali in Italia non è di questi giorni e non è nato dalla recente epidemia COVID-19. L’ultima pubblicazione dell’Associazione T.S.E.I., del maggio 2024, relativamente ai tempi delle procedure esecutive individuali, fotografa una situazione ancora statica. Non si può infatti gridare al miracolo leggendo che la durata media complessiva si sia ridotta a 4,94 anni del 2023 rispetto ai 4,97 anni del 2022. Se si vanno a scorporare le procedure individuali concluse anzitempo per transazione, i tempi medi delle esecuzioni definite con aggiudicazione restano sempre a 6 anni, (6,31 del 2022), e ciò, nonostante le varie riforme, compresa l’ultima “Cartabia”. Questa, peraltro, introducendo il tentativo di mediazione obbligatoria su ogni procedimento (sarebbe stato molto più utile limitarla a importi minori e/o per debitori consumatori), ha di fatto annullato le contrazioni delle tempistiche volute proprio per velocizzare i tempi.
Chi fa il nostro mestiere, sa benissimo che tempi così lunghi per recuperare il credito si riflettono anche sui tempi delle transazioni, che, laddove collegate a procedure individuali, restano comunque intorno ai 4 anni (per la precisione 3,69 nel 2023 vs i 3,77 nel 2022). È ovvio che il debitore esecutato non ha alcun interesse ad accelerare i tempi di un accordo se può rinviarlo di almeno un lustro.
A una situazione già di per sé problematica, si aggiunge l’importante divario territoriale tra Nord e Sud che si manifesta in termini di durata complessiva delle procedure. Sempre dalla pubblicazione dell’Associazione T.S.E.I., emerge che nei Tribunali del Nord Italia occorrono (poco) meno di 5 anni per giungere alla vendita giudiziale, mentre in quelli del Sud e Isole attendiamo oltre 7 anni.
E se ci si concentra sulla durata della fase di vendita nelle procedure concluse con aggiudicazione, i tempi medi dei Tribunali del Sud Italia sono quasi raddoppiati rispetto a quelli delle regioni settentrionali.
Se torniamo al concetto inizialmente espresso (la ricchezza di una Nazione è la propria efficienza), possiamo ben comprendere come una giustizia così lenta non potrà mai essere di supporto all’economia, con buona pace dei proclami dei vari Governi che si sono succeduti, in merito al rilancio economico/sociale del nostro Mezzogiorno.
È sperabile che l’utilizzo dei fondi europei del PNNR possa migliorare questa situazione aumentando il personale delle Cancellerie e potenziando l’informatizzazione già avviata delle procedure. Ma occorre anche che si superi quella sensazione d’incertezza delle decisioni giurisprudenziali probabilmente proprio legata “a doppio filo” con la lentezza dell’iter decisionale. La dilatazione dei tempi di ottenimento di un giudicato può portare a decisioni che probabilmente rappresentano la migliore interpretazione attuale della norma, ma che mal si conciliano con i princìpi, le consuetudini e le pregresse decisioni giurisprudenziali in base ai quali si è formato, spesso molto tempo prima, l’accordo contrattuale per cui è causa.
Come non citare, tra gli altri, l’anatocismo, la nullità parziale delle fideiussioni, l’applicazione e il ricalcolo dei tassi, fino ad arrivare alle più recenti decisioni sulla presunta assenza del cosiddetto merito creditizio.
Su quest’ultimo punto si potrebbero citare decine di articoli di stampa che, in piena emergenza da COVID-19, agendo da megafono dei desiderata politici, chiedevano alle banche di “mettersi una mano sulla coscienza” nell’erogazione dei finanziamenti, accusando spesso gli Istituti di credito italiani di essere troppo rigidi e di boicottare il fine ultimo del Decreto Liquidità.
Oggi, nelle cause sorte per i primi mancati pagamenti di quei finanziamenti, le banche spesso si trovano a dover difendere le valutazioni economiche effettuate ex ante, in un momento storico (una pandemia mondiale) dove le assunzioni, le stime e le previsioni legate al comportamento delle variabili economiche erano tutte da riscrivere ma occorreva tutelare il più possibile il tessuto economico sociale del Paese. Troppo facile dire ex-post, quando l’impresa è andata in malora (magari proprio per gli effetti della pandemia) che il credito è stato erogato senza tener conto del merito creditizio.
Anche per questo motivo, ormai ogni azione di recupero del credito in Italia vede il coinvolgimento del giudice. Tra tempi biblici e incertezza della decisione finale, il debitore è spinto ad adire il Tribunale, trasformandolo sostanzialmente nell’unico luogo di risoluzione dei conflitti. E talune delle recenti norme varate per la Crisi d’Impresa (come, ad esempio, la possibilità di ricorrere alle misure protettive) hanno ampliato, se possibile, questo problema.
Com’è noto, le misure protettive (artt. 18 e 19 CCII), se concesse, bloccano la gran parte delle azioni che i creditori possono avviare a maggiore tutela del loro credito, con un effetto di c.d. automatic stay, per il periodo dedicato al tentativo di comporre la crisi aziendale. Anche in questo caso, in assenza di una rigorosa e solida valutazione, da parte del Tribunale che le concede, d’idoneità delle misure richieste a salvaguardare trattative serie che permettano un effettivo risanamento dell’impresa richiedente, le misure protettive non potranno che risultare un’ulteriore dilatazione di tempi di recupero e una più che probabile perdita di valore del credito da recuperare.
Fino a che i Tribunali saranno ingolfati da ogni tipo di azione, spesso avviata per “comprare tempo”, non riusciremo a vedere miglioramenti nonostante le riforme. Velocizzare i tempi di giustizia non vuol dire soltanto avere decisioni più veloci, ma anche avere decisioni più coerenti con lo spirito degli accordi contrattuali sui quali si decide. Un tale risultato aumenterebbe esponenzialmente le soluzioni stragiudiziali, favorendo ulteriormente il circolo virtuoso.