Le ambizioni di Banco Desio: valori tradizionali e voglia di crescere

Intervista all’ad e direttore generale dell’istituto lombardo Alessandro Decio, che ne ha preso le redini operative dalla primavera del 2020

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Alessandro Decio, amministratore delegato e direttore generale di Banco Desio

Una banca attaccata ai suoi valori tradizionali, ma attenta all’innovazione e con l’ambizione di crescere. A dispetto del nome, Banco Desio ha già varcato da tempo i confini dei suoi territori d’origine. “Sicuramente non siamo più una banca regionale, siamo un player presente in più di metà del territorio nazionale. Vogliamo continuare a crescere, anche per linee esterne, nei territori in cui siamo presenti e nelle specializzazioni in cui siamo competitivi e riteniamo di poter creare valore”. A parlare è l’amministratore delegato e direttore generale Alessandro Decio che dalla primavera del 2020 ne ha preso le redini operative. La pianura padana era già stata attraversata da Banco Desio nel 2016 con l’acquisizione del Banca Popolare di Spoleto, ma i piani di crescita hanno ricevuto una spinta significativa con l’ingresso del nuovo AD.

Nel 2021, la banca ha stretto una partnership strategica con il gruppo Anthilia, entrando nel capitale sociale con il 15%. Un passo che ha permesso a Banco Desio di ampliare ulteriormente la sua offerta di servizi finanziari. Inoltre, nei mesi recenti, con l’acquisizione di 48 sportelli precedentemente appartenuti a Carige e Banco di Sardegna, il gruppo brianzolo ha espanso la sua presenza in Toscana, Emilia, Liguria e Sardegna.

“Abbiamo agito al momento giusto, considerando che la liquidità è tornata ad essere la materia prima del nostro mestiere”. Con alle spalle una semestrale in forte crescita – gli utili netti hanno registrato un incremento “monstre” del 257% a 193 milioni, 100 dei quali provenienti comunque da una partita straordinaria, Decio in questa intervista a Be Bankers, spiega le nuove ambizioni della banca e fa il punto sullo scenario in rapido movimento dell’economia italiana e del settore bancario.

“La nostra prima ambizione è la soddisfazione dei clienti che rappresenta il nostro tratto distintivo. Per poter offrire loro ottimi servizi e mantenere la nostra indipendenza occorre essere in grado – è la nostra seconda ambizione – di generare capitale ed essere redditizi.”. “Negli ultimi anni, nell’ottica di contrastare la crisi innescata dal covid si è assistito a un temporaneo allentamento delle stringenti regolamentazioni, il che ha consentito alcune misure, come l’utilizzo delle garanzie pubbliche per i crediti, che hanno avuto un impatto positivo sulle banche.

E l’ambizione per la crescita?

In un ambiente altamente competitivo, è fondamentale un impegno continuo e costante verso la crescita al fine di mantenere il nostro posizionamento sul mercato e favorire lo sviluppo dei nostri collaboratori, anche attraverso l’espansione per linee esterne. Pertanto, cercheremo opportunità di crescita che mantengano la salute finanziaria dell’azienda e la sua struttura proprietaria, e siamo pronti a sfruttare tali opportunità quando si presenteranno.

Una crescita, dunque, ma in che direzione?

Ad esempio nel sostegno alle Pmi, nella gestione del risparmio ed anche nella cessione del quinto dove abbiamo una società, Fides, che sta operando molto bene. Sono segmenti dove riteniamo di poter coniugare il nostro essere una banca generalista con l’ambizione a diventare più specialista. Con una quota di mercato dello 0,6-0,7% non possiamo certo pensare di voler essere un player dominante. Siamo un player di nicchia e dobbiamo avere qualcosa che ci differenzi.

Come si coniugano i vostri piani di crescita con l’attuale contesto dell’industria bancaria?

La ripresa di valore degli sportelli bancari sta permettendo alle banche di raccogliere risorse a costi contenuti. Tuttavia, è uno scenario destinato a cambiare quando la liquidità diventerà una risorsa più scarsa. Per questo ci aspettiamo una variazione nella struttura della raccolta dei fondi, con un maggior rilievo sui depositi a termine rispetto a quelli a vista, tutto ciò è in linea con i trend già visti in altri paesi. Al momento, un elemento significativo da evidenziare è il ritorno di una quota del risparmio delle famiglie verso i titoli di stato.

La concorrenza con i BtP vi costringerà a remunerare i conti correnti, come stanno facendo altre banche?

Non credo. Come succede in tutta Europa esiste un conto operativo, che non è remunerativo, di conseguenza i clienti che desiderano ottenere rendimenti dai loro fondi, tendono a optare per la creazione di conti d’investimento o conti di deposito a breve termine, in base al loro orizzonte temporale d’investimento.

Nella rarefazione della liquidità influiscono anche le scelte della Bce. Non vi preoccupano le scadenze per la restituzione dei finanziamenti TLTRO alla Banca centrale? Tra la fine del 2023 ed il 2024 in Europa dovranno essere restituiti 600 miliardi di euro.

Non siamo preoccupati, abbiamo iniziato un anno fa un piano di funding. I nostri indicatori di liquidità, sia a breve che a medio-lungo termine, hanno registrato miglioramenti, per cui non riteniamo che sia possibile un impatto immediato sulle nostre capacità di finanziamento.

Ma il sistema veniva da un paio di anni di forte crescita.

Certamente e c’è un aspetto fisiologico nella riduzione degli impieghi dovuto al fatto che il denaro è divenuto più caro di conseguenza le imprese preferiscono utilizzare la loro liquidità per le loro esigenze finanziarie piuttosto che attivare linee di credito bancarie. Quanto sta accadendo denota che il contesto economico è divenuto meno positivo, d’altra parte non è neppure così sorprendente. La crescita economica soffre a causa di un’ inflazione al 10%, dei tassi che aumentano dallo 0 al 4%e della Cina che rallenta.

Tutto questo sta causando un rallentamento negli investimenti e una diminuzione della domanda di posti di lavoro, il che è motivo di preoccupazione, considerando che il nostro Paese necessita d’investimenti. Un rallentamento di quest’ultimi potrebbe portare l’Italia a rischiare di stagnare nuovamente. In realtà, c’è anche un terzo elemento che sta contribuendo a questa situazione.

Quale?

Non tutte le banche presentano lo stesso livello di capitalizzazione e disponibilità di liquidità, al contrario in precedenza era abbondante e a buon mercato. Quindi questa riduzione degli impieghi dipende da una minore domanda delle imprese ma anche da una minore offerta del sistema bancario.

Si rischia un credit crunch?

Il rischio c’è e credo che diventerà più visibile nel tempo. Comunque la situazione non è mai una fotografia statica. Tutti speriamo che la Cina risolva i suoi problemi e che ci sia una crescita degli scambi internazionali. È auspicabile una normalizzazione dello scenario geopolitico e minore tensione sulle materie prime, un’inflazione che si stabilizzi e aspettative di tassi che restino sostanzialmente basse. Tutto ciò può creare un contesto in cui lo scenario può migliorare.

Poi dipenderà anche dall’approccio alla politica fiscale che si decide in Europa, uno dei fattori che sta agevolando gli Stati Uniti è che, a fronte di una politica monetaria stringente, hanno fatto una politica fiscale molto espansiva. Questo ha portato al downgrading del loro debito ma anche al più grande piano d’investimenti che sia stato mai fatto. In Europa, invece osserviamo che la politica monetaria restrittiva si associa ad una politica fiscale restrittiva. Non possiamo scaricare la responsabilità sulla BCE, considerando che il suo obiettivo principale è mantenere sotto controllo l’inflazione.

Le previsioni fosche sull’economia per il momento non stanno comportando un aumento dei fallimenti.

I tassi di default non sono stati mai così bassi come negli ultimi due anni, siamo in una situazione assolutamente benigna. Possiamo aspettarci un aumento dei default ma si tratterebbe di un andamento fisiologico. I primi segnali già li vediamo nel segmento delle PMI che sono più vulnerabili, probabilmente le difficoltà arriveranno successivamente nel segmento retail (prestiti al consumo, mutui) e da ultimo coinvolgeranno le imprese più forti e strutturate. Non ci aspettiamo, però, la stessa ondata di fallimenti che si verificò all’indomani della crisi finanziaria del 2008. Attualmente le imprese sono gestite in modo più efficace e presentano una solidità finanziaria maggiore rispetto a quanto accadesse nel decennio precedente. A quel tempo erano di gran lunga le più indebitate d’Europa e praticamente tutto lo stock del loro debito era a breve. Oggi invece la leva è praticamente in linea con quella delle altre aziende europee e buona parte del debito è stata collocata sul medio-lungo termine, anche attraverso le iniziative prese durante il periodo critico e difficile della pandemia. L’altro fattore è che negli ultimi anni le banche hanno dato credito in modo molto più prudente rispetto a quanto fosse stato fatto in precedenza. Per tutti questi motivi non vedremo quel deterioramento così profondo e rapido come quello che abbiamo sperimentato in passato.

In aggiunta gli istituti di credito sembrano più attenti a cogliere all’origine i segnali di difficoltà degli affidati e a intervenire tempestivamente.

La qualità del credito dipende per il 40% dall’erogazione ma per il 60% dal monitoraggio, per cui è necessario seguire la posizione per capire se il cliente sta andando nella direzione giusta. Oggi addirittura classifichiamo clienti con molta più puntualità e attenzione, questo ci consente di gestire le situazioni in modo più costruttivo rispetto a come dovremmo fare se, ai primi segnali di difficoltà, chiudessimo un occhio.

Quindi dobbiamo attenderci una minore “produzione” di crediti deteriorati?

Non credo che il nuovo contesto di cui abbiamo parlato si riveli devastante perché, come dicevo, le imprese sono sia più solide, sia amministrate più efficacemente inoltre anche le banche sono gestite in modo più abile e sottopongono i loro clienti ad un maggior monitoraggio. Non dovremmo commettere l’errore di negare finanziamenti alle aziende con il potenziale per il successo, ma è fondamentale mantenere alti standard di rigore quando un’azienda non è in grado di raggiungere i propri obiettivi. In tal caso, potremmo intervenire nuovamente a condizione di un cambiamento significativo.

Negli ultimi anni tra l’altro le banche hanno evitato di assumere un’eccessiva concentrazione di rischi creditizi, soprattutto sulle scadenze medio lunghe, anche per evitare i costi di una stringente regolamentazione prudenziale.

Certo. È difficile essere in grado di soddisfare tutte le esigenze di finanziamento di un’azienda. Anche se valutiamo positivamente una realtà e siamo interessati a sostenere il suo sviluppo, la nostra intenzione è quella di ottenere una quota d’inserimento compresa tra il 10% e il 15%. Oltre questa soglia, ci esporremmo a un rischio eccessivo e potremmo diventare dipendenti dal cliente. Parallelamente, cerchiamo di mantenere una relazione stabile con le nostre imprese. L’essenza della nostra collaborazione con Anthilia risiede proprio in questo concetto, quando riteniamo che un’azienda abbia solide prospettive, il nostro partner interviene a sostegno. Ad esempio, emettendo minibond o utilizzando il private debt come strumento per facilitare l’accesso dell’azienda ai mercati finanziari.

Ma se invece l’evoluzione del credito fosse negativa? In presenza di maggiori default, come verranno gestiti? Negli ultimi anni Banco Desio, al pari degli altri istituti di credito ha smaltito una massa imponente di NPL. Una discesa che, tra l’altro, ha coinciso con il suo arrivo alla guida della banca. Qualche numero?

Alla fine del 2019 la banca aveva un NPL ratio intorno al 6%, a giugno di quest’anno la stessa percentuale si era in pratica dimezzata al 3% con una massa di crediti erogati salita nel frattempo da 10 a 12 miliardi di euro. Il risultato è stato ottenuto con una strategia non caratterizzata da maxi cessioni, bensì da numerose cessioni di perimetro limitato, costruite in base alle aspettative dei vari investitori di volta in volta coinvolti. In questo modo si è ottimizzato il prezzo di cessione e si è potuto ottimizzare anche ciò che non è stato ceduto. Infatti, la riduzione di crediti deteriorati da gestire internamente (perché non ceduti), sommata ad una struttura interna molto specializzata, ha portato a performance di recupero significative: sopra il 10% di Gross Book Value (GBV) all’anno per le sofferenze e intorno al 30% per i crediti Unlikely To Pay (UTP).

Alessandro Decio

Chi è? 57 anni, laureato all’Università Bocconi, sposato con tre figli, ha iniziato la sua carriera professionale a Londra all’Imi International (1990). Morgan Stanley e McKinsey sono state le successive tappe prima dell’arrivo alla EBRD (1994) ossia la European Bank for Reconstruction and Development, dove ha ricoperto anche la carica di Senior Banker, Agribusiness Team.

Nel 2000 è entrato nel gruppo Unicredit dove ha svolto incarichi di sempre maggiore responsabilità, fino a ricoprire il ruolo di group chief risk officer. Nel 2016, dopo una breve esperienza come ceo di ING Italy, è stato nominato amministratore delegato e direttore generale di SACE dove è rimasto fino al dicembre del 2019. Da aprile 2020 è amministratore delegato e direttore generale di Banco Desio.

I flussi dei crediti in uscita dalle banche sono ora in diminuzione anche per effetto del contesto determinato dai tassi di interesse più elevati. Come pensa che evolverà il mercato degli NPL per il futuro?

Sarà un mercato sempre più di qualità. Nel periodo tra il 2013-2014 e lo scorso anno uno stock gigantesco di NPL si è riversato nel mercato dove all’inizio, occorre dirlo, le professionalità per gestire questi crediti erano meno diffuse. Con il tempo abbiamo assistito ad un’evoluzione e ad una crescita di competenze ed oggi che il flusso si è fermato in misura significativa, i servicer possono effettivamente dedicarsi a strategie e competenze dedicate così da essere molto più efficaci e specializzati.

Ci sono servicer dedicati agli Utp piccoli, quelli che seguono gli Utp più grandi, i servicer che si occupano di real estate oppure alberghi, ristoranti, industria meccanica. In altre parole i servicer stanno diventando più specializzati nel gestire il credito deteriorato ma anche gli step dei processi che le banche non vogliono più seguire o che loro stessi riescono a svolgere in modo più efficiente. Attualmente possiamo osservare un mercato dove è presente maggiore professionalità, granularità e, anche, un mercato più frammentato. Precedentemente vi era un elevato numero di operatori poiché arrivavano sul mercato grandi stock di credito deteriorato, oggi il flusso è rallentato, per cui è inevitabile attendersi un consolidamento. Il primo passo l’abbiamo visto con l’acquisto di Prelios da parte di Ion. Credo che dovremo attenderci anche altre operazioni.

Nel periodo del Covid il ruolo delle garanzie pubbliche è stato assai rilevante. In eredità ci sono garanzie su 280 miliardi di crediti gestiti tra MCC e Sace. In più ci sono le Garanzie sulla Cartolarizzazione delle Sofferenze (GACS) relative a 88,5 miliardi che, a fine 2021, risultavano usciti dai bilanci delle banche. Non si è creata una bolla destinata a ripercuotersi con fragore nel bilancio pubblico?

L’Italia è il Paese con il maggior numero di PMI che, tipicamente, hanno più difficoltà di accesso al credito. Le finanze pubbliche – è stato provato – sono lo strumento più efficace per garantire lo sviluppo delle imprese. In Germania hanno accordato garanzie pubbliche, in rapporto al pil, che sono tre volte superiori rispetto a ciò che è stato accordato nel nostro Paese. Negli ultimi anni, poiché non avevamo un strumento del genere, è risultato necessario accelerare al fine di sanare un vuoto e al contempo creare uno strumento che sarà utile anche nel futuro. Infine è opportuno sottolineare che quando le garanzie pubbliche vengono accordate c’è uno stanziamento ad hoc che viene sorvegliato nella finanza pubblica, in funzione della stima sui possibili tassi di default. Se quel tetto non viene raggiunto vi è un effetto benefico sul bilancio pubblico. La garanzia pubblica è molto più efficiente rispetto ai finanziamenti diretti, non si configura come un aiuto di stato, non va a pesare direttamente sul fabbisogno.

A patto però che non ci siano interventi a gamba tesa da parte della politica. Che ne pensa delle indiscrezioni circolate ad agosto sull’intenzione del governo di recepire alcune proposte di legge con le quali i debitori potrebbero saldare le loro posizioni, già cartolarizzate, al prezzo al quale le banche hanno ceduto gli stessi crediti, con una maggiorazione del 20% (o del 40%, se già sono state avviate procedure esecutive)?

Se fossero confermate le indiscrezioni di stampa, la proposta sugli Npl sarebbe difficile da comprendere, sarebbe distorsiva e avrebbe effetti indiretti che paralizzerebbero tutti. Sono certo che sarà rivista con saggezza.

Tra l’altro chi ha ricevuto un finanziamento avrebbe un perverso incentivo a non pagare le rate attendendo che il debito si svaluti e che, una volta cartolarizzato, possa rimborsarlo ad un prezzo da svendita.

La logica è un po’ quella del condono fiscale. È una tantum, poi però se ne fa uno ogni due anni e quindi il contribuente percepisce che non è per nulla una tantum e aspetta il prossimo.

Che impatto potrebbe avere un simile provvedimento?

L’effetto immediato sarebbe quello di bloccare o ridurre significativamente le cessioni dei crediti con la fuga degli investitori esteri. Poiché oggi l’NPL ratio delle banche italiane è più che confortante, a fronte di un simile decreto, le banche non cederebbero più i loro crediti o li cederebbero in misura molto inferiore. Per qualche anno si può restare in questa situazione. Nell’immediato, coloro che verrebbero maggiormente influenzati sarebbero i servicer, in particolare quelli con portafogli già consolidati, come ad esempio Amco, che rappresenta il principale operatore del mercato. Inoltre, le GACS precedentemente accordate dallo Stato verrebbero inevitabilmente sottoposte a pressione.

Considerato che Amco è una società pubblica lo Stato rischia un gigantesco autogol.

È essenziale avviare un dialogo poiché la situazione sta diventando sempre più complessa, per cui è preferibile cercare soluzioni condivise in cui le banche siano disposte a contribuire in modo significativo.