L’industria del credit servicer al servizio delle banche per gestire al meglio i crediti in stage 2

La gestione degli stage 2 è oggi un tema sensibile per Autorità di Vigilanza e operatori finanziari a causa della recente trasformazione dell'universo degli stage 3 che ha causato un'evoluzione del mercato del credito a favore di credit servicer e investitori specializzati

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La salvaguardia della continuità aziendale è uno dei principali obiettivi del vigente Codice della crisi d‘impresa e dell’insolvenza (“CCII”). Tale paradigma si è tradotto, all’interno del dettato normativo, nella prevalenza degli strumenti di regolazione della crisi funzionali alla conservazione del going concern, mentre agli strumenti liquidatori è stato riservato un ruolo residuale.

Nella medesima ottica, il legislatore ha reso centrali i concetti di prevenzione dell’insolvenza e tempestiva rilevazione della crisi. Il CCII all’art. 356, riprendendo il novellato articolo 2086 c.c., prevede un’esplicita responsabilità dell’imprenditore, il quale deve “adottare misure idonee a rilevare tempestivamente lo stato di crisi e assumere senza indugio le iniziative necessarie a farvi fronte”. Il cambio culturale richiesto dal legislatore impone che le aziende si dotino di una struttura organizzativa, amministrativa e contabile capace di identificare le situazioni di difficoltà finanziaria sin dalla loro fase iniziale, intercettando tempestivamente1:

  • l’esistenza di debiti scaduti da almeno 30 giorni pari a oltre la metà dell’ammontare complessivo mensile delle retribuzioni;
  • l’esistenza di debiti verso fornitori scaduti da almeno 90 giorni di ammontare superiore a quello dei debiti non scaduti;
  • l’esistenza di esposizioni nei confronti delle banche e degli altri intermediari finanziari, che siano scadute da più di 60 giorni e rappresentino complessivamente almeno il 5% del totale delle esposizioni.

L’imprenditore non può più limitarsi alla redazione ed analisi di documenti basati su dati consuntivi, deve dotarsi di assetti adeguati e strumenti utili a prevedere l’andamento aziendale rilevando precocemente quei sintomi predittivi denominati early warning.

Coerentemente con l’impostazione finora descritta (prescindendo da considerazioni sull’utilizzo che sinora se n’è fatto), il legislatore ha introdotto l’istituto della Composizione Negoziata della Crisi (“CNC”) da considerare come “strumento di allerta” funzionale alla emersione e gestione anticipata della crisi, a cui può accedere l’impresa “quando si trova in una condizione di squilibrio patrimoniale o economico-finanziario che ne rendono probabile la crisi”. La CNC è un percorso negoziale “protetto” volto ad agevolare, sotto l’egida di un esperto, una definizione consensuale della situazione di (pre) crisi dell’impresa.

Il nuovo Codice focalizza così la propria attenzione non solo sulla gestione della crisi di imprese non performing (stage 3), ma anche su quelle imprese underperforming (stage 2).

L’individuazione degli early warning e dell’underperformance diventa così un esercizio fondamentale tanto per le aziende in funzionamento quanto per le banche, a cui, nel corso degli anni, attraverso diversi interventi regolamentari, è stato richiesto di adottare presidi e procedure di monitoraggio in grado di prevedere e rilevare correttamente in bilancio il deterioramento dei propri attivi. In particolare, l’IFRS 9, attraverso il criterio della stage allocation e l’implementazione di un approccio forward looking nella contabilizzazione dei crediti, ha determinato, il più delle volte, maggiori accantonamenti a Conto Economico nei bilanci dei soggetti vigilati determinando delle under performance di primari istituti di credito che relativamente alla gestione del credito ponevano in essere politiche di management override of controls. Per il sistema bancario la prevenzione di uno scivolamento del credito dallo stage 2 allo stage 3 è diventata così di cruciale importanza; gli istituti finanziari continuano ad investire per ottimizzare procedure e flussi informativi finalizzati all’emersione anticipata del deterioramento del credito e alla conseguente gestione proattiva delle situazioni in via di deterioramento, allo scopo di prevenire la formazione di nuovi UTP2 (stage 3).

A partire dalla crisi pandemica, la gestione delle esposizioni stage 2 rappresenta un tema estremamente sensibile tanto alle Autorità di Vigilanza quanto agli operatori finanziari (in particolare, banche e credit servicer). L’origine di questo particolare interesse è da ricercare nella recente trasformazione dell’universo degli stage 3 che, attraverso un massiccio processo di deleverage, ha determinato, così come richiesto dal Regulator3, la progressiva riduzione dei crediti deteriorati nei bilanci bancari ed una repentina evoluzione del mercato del credito a favore di credit servicer e investitori specializzati.

Nel 2014, l’introduzione del Meccanismo di vigilanza unico (“SSM”) ha fatto emergere la complessiva fragilità del sistema bancario italiano; fragilità collegata alla qualità dell’attivo e all’adeguatezza patrimoniale. A partire dal 2015, le Autorità di Vigilanza si sono concentrate non solo nell’individuazione di un percorso volto a ridurre in modo sostenibile i non performing loans (“NPL”) all’interno dei bilanci bancari ma anche nella definizione di linee guida e best practices per la gestione degli NPL. Nel 2015 lo stock di esposizioni non performing aveva raggiunto quasi Eur 350 miliardi, di cui Eur 200 miliardi classificati come bad loans. A fine 2020, grazie all’incisiva azione di deleveraging promossa dalla BCE, il volume di NPL è sceso sotto Eur 100 miliardi, di cui solo Eur 49 miliardi classificati come bad loans.

L’ evoluzione del mercato degli NPL, partita dal mondo dei bad loans, si è rapidamente estesa agli unlikely to pay (“UtP”) grazie soprattutto al consolidamento dell’industria del debt servicing4 che ha saputo sviluppare ed attrarre le competenze necessarie a servire un universo così complesso ed eterogeneo. La specializzazione dei servicer ha comportato la nascita di nuovi modelli di business che hanno presto scardinato vecchi paradigmi bancari generando così opportunità imprenditoriali per capitali privati che, non dovendo rispettare i requisiti di capitale necessari per la costituzione di banche, si sono de facto sostituiti agli intermediari tradizionali in alcuni comparti del credito (leasing, factor, hot money) e successivamente proposti al mondo delle imprese come un canale alternativo di supporto alla crescita dell’economia reale.

Nel corso del 2022, mentre lo stock di crediti stage 3 è continuato a diminuire (<Eur 70 miliardi), il totale dei crediti classificati stage 2 nei bilanci delle banche è passato da Eur 141 miliardi (9% degli impieghi) a Eur 250 miliardi (14% rispetto ad una media europea del 9,8%), di cui circa Eur 70 miliardi sono relativi a finanziamenti con garanzia pubblica (finanziamenti coperti da Mediocredito Centrale o SACE). Questi dati dimostrano, da un lato, la materialità del fenomeno e, dall’altro, l’urgenza sistemica di convergere verso modelli gestionali coerenti e strutturati come fatto a partire dal 2015 per la gestione degli NPL.

Vi sono indubbie similitudini e opportunità di continuità gestionale tra UtP e stage 2; questa circostanza indurrebbe a pensare che il modello di de-risking e credit servicing consolidatosi nel mondo UtP potrebbe rivelarsi adeguato ed efficace anche per il mondo stage 2. Tuttavia, ad un’analisi più attenta, risulta evidente che vi sono anche profonde differenze; in particolare:

  • sono esposizioni tecnicamente in bonis, dunque non interessate dall’applicazione del calendar provisioning;
  • sono clienti adempienti con cui la banca, se dotata di un adeguato sistema di risk monitoring, ha tutto l’interesse a mantenere una relazione commerciale.

Fermandoci a questi due elementi, sembrerebbe più opportuno ragionare su un modello inedito, in cui le partnership tra banche e credit servicer potrebbero avere un ruolo centrale.

I credit servicer potrebbero supportare le banche, mettendo a disposizione dei propri partner tutta la tecnologia e le competenze di data management / data valorisation sviluppate in questi anni e strumentali ai diversi Istituti Finanziari per essere pienamente compliant alla normativa imposta da BCE.

Le banche, dal canto loro, dovranno inevitabilmente aprirsi a nuovi modelli di partnership, basati non tanto sull’outsourcing delle attività, ma piuttosto sull’internalizzazione di processi e strumenti sviluppati dai propri partner grazie alla continua condivisione dei dati disponibili.

La capacità delle banche di elaborare ed utilizzare l’immenso patrimonio di dati a propria disposizione sarà dirimente, non solo per adempiere agli obblighi imposti dalla vigilanza prudenziale, ma anche e soprattutto per restare sul mercato. Un tale patrimonio (basti pensare ai soli dati transazionali) andrà messo a servizio non solo delle proprie funzioni interne (in primis risk management), ma delle aziende stesse favorendo così l’implementazione degli adeguati assetti e l’adozione degli idonei strumenti, di cui il CCII impone all’imprenditore di dotarsi.

Note

1 I tre punti indicati fanno riferimenti all’art. 3 del Decreto legislativo del 12/01/2019 n.14 che contiene a sua volta le modifiche apportate dal Decreto legislativo 147 del 26/10/2020 ed in ultimo le modifiche previste dal Decreto legislativo del 17/06/2022 n. 83 Articolo 2 entrato in vigore, come noto, il 15/07/2022.

2 L’accantonamento a copertura del credito (coverage) nello stage 3 è pari al 50-60% del GVD del Loan, mentre nelle situazioni caratterizzate da un aumento significativo del rischio, in cui si manifestano i primi segnali di crisi ma senza evidenza di perdita (stage 2), è intorno al 5-10%.

3 Quanto riportato è in compliance con quanto previsto dalle Linee Guida sulla gestione dei crediti deteriorati, di ECB (2017), dell’EBA (2018), di Banca d’Italia (2018) e sulle aspettative relative al livello minimo di copertura dei crediti deteriorati (cd calendar provisioning) introdotto nell’approccio di supervisione del MVU nel 2019 (Secondo Pilastro) e nella regolamentazione europea (Primo Pilastro) 2019.

4 Ad oggi il mercato italiano dei servicer si mostra molto concentrato, circa il 95% delle operazioni è riferibile a 7 operatori (6 intermediari finanziari ex art. 106 TUB e una banca specializzata) che nell’anno 2022 hanno gestito transazioni di NPE per € 40,2 miliardi e, per il biennio 2023/24, ci si attende gestiscano nuovi flussi NPE per un importo pari ad € 56 miliardi.

5 Fonte: PWC – The Italian NPE market: Brand New Day?