Il trend non cambierà segno. E neppure il diverso scenario dei mercati finanziari interromperà il processo che negli ultimi anni ha visto un’erosione della quota dei crediti accordati dalle banche alle imprese le quali, con sempre maggiore frequenza, si stanno rivolgendo ai mercati dei capitali (equity e debt) per le proprie esigenze di finanziamento. Lo smottamento del canale tradizionale d’intermediazione bancaria era stato favorito dal contesto di bassi tassi d’interesse che aveva ridotto al lumicino il margine degli istituti di credito (tra tassi attivi e passivi). Ma ora che quel gap si è di nuovo ampliato, con l’aumento dell’inflazione e dei tassi, le banche non avranno la tentazione di tornare a concentrarsi sul loro modello di business tradizionale? “Non credo”, risponde convinto Massimo Figna, fondatore e Ceo di Tenax Capital, società di gestione di fondi di private debt cresciuta in questi anni intercettando la domanda di finanziamento delle imprese proprio attraverso i nuovi strumenti del mercato dei capitali. Oggi Tenax, di cui la conglomerata cinese Fosun ha acquisito il 75% del capitale, gestisce asset per € 2,2 miliardi.
“Il mercato del private debt – spiega – è cresciuto spinto da due driver principali. Innanzitutto ha pesato la necessità delle banche di aumentare la profittabilità in presenza di tassi decrescenti. Tutto ciò è stato realizzato incrementando la componente fee (commissionale) dei loro proventi, nell’asset management ed anche nel settore assicurativo, tutte fonti che non comportano un grande assorbimento di capitale. Il secondo driver è stato rappresentato dal consolidamento bancario che ha comportato limiti alla concentrazione di credito in capo ad una singola azienda. Se due banche che finanziano lo stesso soggetto si fondono, a fusione avvenuta non sarebbero più in grado di erogare l’ammontare complessivo di quel credito in presenza appunto di un limite alla concentrazione sulle singole posizioni”.
A fronte di queste spinte non sempre i nuovi strumenti offerti sul mercato dei capitali hanno coronato le aspettative iniziali. È vero. Dal lato dell’offerta non c’è stata una significativa accelerazione. Ad esempio gli Eltif, i fondi d’investimento europei a lungo termine, non sono decollati anche per la difficoltà di collocare ad investitori retail prodotti d’investimento illiquidi, in presenza di forti restrizioni imposte dai regolatori. In effetti soltanto investitori istituzionali, in particolare gli assicuratori, hanno incrementato significativamente gli investimenti private. È un trend rafforzato anche nel corrente scenario inflazionistico. I loans sono in fatti prodotti inflaction protected perché erogati in gran parte a tasso variabile.
Poi è arrivata la pandemia e con essa la legislazione d’emergenza varata in tutta fretta dai governi per evitare un’ondata di fallimenti tra le imprese. Negli ultimi anni la disponibilità della garanzia pubblica ha comportato un’altera zione profonda. Con il rischio del credito posto in capo allo Stato abbiamo vissuto due anni anomali, in Italia ma non solo.
Infine, esacerbate dalla guerra in Ucraina sono arrivate l’inflazione, l’emergenza energetica, l’aumento dei tassi. Non c’è il rischio, per le banche, di un ritorno al passato? Come dicevo, non credo proprio, almeno per le banche del sud Europa che devono ridurre il significativo gap con quelle nordamericane e del nord Europa le cui fon ti di reddito dipendono in misura molto inferiore dagli affidamenti alla clientela.
Ora, peraltro, il mercato dei capitali sta aprendo nuove strade. Prendono la via private non soltanto flussi di prestiti già erogati dalla banca ma quelli sul punto di essere accordati dall’iniziale originator.
“È il nuovo modello di business “originate to share” che ha subito una forte accelerazione in conseguenza della crisi della finanza internazionale del 2008”
Questa ha determinato fallimenti ed erosione di capitale per molti istituti costringendoli a cambiare rotta. Spingendoli a cercare investitori disposti a condividere con loro il rischio dell’attività creditizia, anche al fine di ridurre i ratios di capitale.
“In pratica ciò che accade è che la banca, fin dal momento di erogare i finanziamenti alle imprese, trasferisce quegli asset a intermediari specializzati che li propongono, cartolarizzati in un fondo, ad una platea d’investitori istituzionali. In questo modo le banche non perdono contatto con la loro clientela ma allo stesso tempo condividono il rischio di credito con altri soggetti”
Anche in Italia, ora, si stanno sperimentando i primi progetti operativi.
Come si fa a gestire i conflitti d’interesse insiti in questo modello? Non c’è il rischio che la banca scarichi su altri soggetti i suoi bad loans? Vi sono innanzitutto presidi di governance. A decidere sugli investimenti è un soggetto terzo indipendente che ap prova i deal proposti dall’originator. E poi la banca ha, come si dice, lo skin in the game, cioè condivide i rischi dell’investimento. Mantiene una quota del loan che ha trasferito al fondo, e s’impegna a rilevare una determinata percentuale degli investimenti complessivi del fondo stesso.