Il recente convegno di Alma Iura sul credito deteriorato ed il resoconto che ne ha fatto un articolo di Bebeez mostrano un settore in ripiegamento dove i nuovi flussi di NPE sono inariditi, le performance di recupero declinano, la redditività dei servicer è ben lontana da quella di pochi anni fa e gli operatori sono a caccia di economie di scala con aggregazioni e consolidamenti, ma anche alla ricerca di nuovi ruoli. Non consola che il mercato secondario sia, sia pur moderatamente, attivo, perché è il frutto delle difficolta di alcuni investitori.
D’altra parte i numeri pubblicati a settembre 2024 da Banca IFIS nel suo dettagliato e sempre ben documentato Report su “Mercato delle transazioni NPL e industria del servicing” confermano le preoccupazioni degli operatori del settore.
Uno dei dati più interessanti del Report è quello che attesta un allungamento della recovery curve di 8 mesi che si aggiungono ad un media di 50 mesi già trascorsi dal closing.
L’importanza di questo dato è legata alla redditività dei servicer. Come è noto i servicer sono remunerati prevalentemente in percentuale sugli incassi realizzati. Più gli incassi sono veloci più il servicer guadagna nell’unità di tempo. Ma se la velocità degli incassi rallenta, il costo di produzione, a parità di incassi, aumenta per effetto dell’incidenza dei costi fissi che maturano tempo per tempo indipendentemente dagli incassi. È una questione di produttività, non di produzione.
Anche qui non c’è da sorprendersi e chi lo fa o è in mala fede o non ha competenze specifiche. La gestione degli NPL è per sua natura di lungo periodo e avrebbe bisogno di investitori pazienti. Se invece gli investitori sono speculativi e quindi impazienti è facile che i business plan di impianto, cioè quelli stabiliti in sede di acquisizione dei portafogli, siano generosamente formulati – specie in termini di curve di recupero – per facilitare l’attribuzione dell’ incarico. Questo elemento è evidente, stando ai dati IFIS, specie per le operazioni con GACS 1.0 (le prime), che risultano ancora stabilmente sottoperformanti.
Ma anche il dato complessivo della riduzione dello stock complessivo di NPE dai 361 miliardi del 2015 ai 290 miliardi attesi per fine 2024 (-71 mld) dimostra che le attese di chi riteneva che i servicer specializzati potessero fare miracoli erano una illusione: Il calo è dovuto in gran parte dalla riduzione dei flussi di nuovi NPE piuttosto che ai recuperi ed alle chiusure di pratiche per effetto della loro gestione.
Risultati migliori si sarebbero potuti ottenere solo in due casi : a) se il sistema economico avesse avuto un andamento decisamente brillante, e così non è stato; b) se si fossero adottate normative che favorissero gli accordi con i debitori per lo stralcio delle posizioni (v.il cd. Giubileo bancario) e questo non lo si è voluto.
La conseguenza è che i recuperi non possono accelerare, anzi, ristagnano andando ad incidere sui conti economici dei servicer che hanno ormai delle strutture operative particolarmente pesanti e costose che verranno ulteriormente aggravate dalle prescrizioni del d.lgs. 116/24, grazie alle quali i servicer saranno costretti a farsi carico di oneri regolamentari, analoghi a quelli delle banche e dei 106, quali soggetti di interesse pubblico regolati e vigilati.
Questo potrebbe influire significativamente sui prezzi del servizio reso dai servicer che inciderebbe sulla redditività degli investitori già condizionata in prospettiva dall’aumento dei prezzi degli NPL dovuta alla riduzione dell’offerta ed all’aumento della domanda.
In una prospettiva in cui qualcuno dice (John Fell, della BCE) che il costo del rischio in Italia non è una problema perché ormai ha raggiunto il minimo storico di 25 punti base, è probabile che alle banche venga il dubbio che tornare alla gestione interna degli NPE possa essere più conveniente che continuare a registrare perdite da cessioni massive.
Staremo a vedere.